Guerra di Otranto

Guerra di Otranto
Il castello di Otranto
Data1480-1481
LuogoOtranto
EsitoVittoria ottomana nel 1480 Le forze cristiane riprendono la città nel 1481
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
16 000-18 000 fanti
500 cavalieri
70 navi
3 000 fanti
2 000 soldati otrantini
2 100 fanti ungheresi
300 cavalieri
Perdite
10 500 soldati
500 cavalieri
Sconosciute
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La guerra di Otranto (o sacco di Otranto o battaglia d'Otranto) è stata un'operazione militare che ha comportato l'assedio, la conquista, il saccheggio e la liberazione della città di Otranto nel 1480-1481, quando un esercito ottomano, in realtà diretto a Brindisi, ma dirottato più a sud da un forte vento di tramontana, attaccò la città salentina, allora appartenente al Regno di Napoli, sotto il dominio di re Ferrante d'Aragona. Lo sbarco avvenne su una spiaggia a nord di Otranto che prese il nome proprio da questo avvenimento: ancor oggi si chiama baia dei Turchi.

La città fu posta sotto assedio per circa due settimane e i suoi abitanti si rifugiarono all'interno delle mura resistendo e respingendo con vigore le offese. A scatenare l'assedio e le crudeltà dell'esercito turco comandato dall'abile condottiero Gedik Ahmet Pascià fu l'uccisione da parte dei difensori di Otranto dell'ambasciatore turco inviato per negoziare la resa, cosa ritenuta sacra dai turchi. Al comando delle truppe scelte dei Giannizzeri e sparando colpi di artiglieria di una grandezza mai vista prima riuscirono ad aprire una breccia. Gli otrantini, per la maggior parte male armati e non avvezzi al combattimento, non riuscirono a contenere la furia degli invasori soccombendo sotto i colpi di scimitarra. I bambini più fortunati e molte giovani donne furono presi e portati in Turchia, altri furono violentati e uccisi con le donne, altri ancora dovettero subire tremende mutilazioni.

Al termine della battaglia, il 14 agosto 1480 furono decapitati sul colle della Minerva 800 otrantini (maschi dai 14 anni in su) che si erano rifiutati di rinnegare la religione cristiana: sono ricordati come i santi Martiri di Otranto, le cui reliquie sono custodite nella cattedrale del paese. Sono stati canonizzati come santi martiri nel 2013.

Martiri di Otranto

In seguito alla battaglia e all'invasione degli ottomani, andò distrutto il monastero di San Nicola di Casole, che ospitava allora una delle biblioteche più ricche d'Europa.

A circa un trentennio dalla presa di Costantinopoli (1453), Maometto II disponeva di una flotta e di un esercito sempre più efficaci in grado di minacciare l'Europa e tale era anche la sua artiglieria capace di produrre consistenti devastazioni.

Su questa base aveva posto tra i suoi obiettivi l'isola di Rodi, amministrata dai Cavalieri Ospitalieri da oltre un secolo, che costituiva una spina nel fianco ai domini del sultano nell'Egeo.

Nel maggio del 1480, quando la flotta turca fece rotta su Rodi, il re Ferrante di Napoli inviò due grosse navi in soccorso ai cavalieri gerosolimitani. Ordinò che le due galee battessero bandiera veneziana, affinché potessero raggiungere indisturbate l'isola. Tuttavia, la Repubblica di Venezia non soltanto s'accorse dello stratagemma ma, temendo ritorsioni da parte degli ottomani, si affrettò ad inviare a Costantinopoli una delegazione speciale affinché spiegasse al sultano l'inganno di Ferrante e ribadisse la neutralità di Venezia nel conflitto contro gli Ospitalieri.[1]

Rodi tuttavia non era l'unico obiettivo di Maometto II: aveva infatti in progetto di far salpare una seconda flotta approntata a Valona e di attaccare il regno di Napoli, scovando il pretesto in presunti diritti turchi sull'eredità dei principi di Taranto. Indipendentemente dalla sua manifesta volontà di realizzare il sogno di conquistare Roma, Maometto II intendeva anche punire Ferrante per l'aiuto da questi fornito ai Cavalieri di Rodi e agli insorti albanesi.

Dettaglio della sala della battaglia di Otranto del castello di Capua

La crisi italiana di quegli anni favoriva d'altronde i turchi. Gli Stati italiani divisi tra loro non avrebbero contrapposto nell'immediato alcuna forza politico-militare. I turchi sapevano inoltre che le armate napoletane e pontificie erano impegnate dal 1478 contro Firenze, e in questo quadro generale concepirono il proposito di occupare un lembo strategico del Salento, come testa di ponte per un'eventuale campagna nella penisola.

In aggiunta, il 25 gennaio 1479 la Serenissima e Maometto II avevano sottoscritto la pace, ponendo fine alla prima guerra turco-veneziana. Fiaccata da un conflitto durato quasi diciassette anni e affrontato pressoché da sola, Venezia aveva dimostrato una ferma intenzione di mantenere una politica tenacemente neutrale nel Levante, anche quando venne a conoscenza, nell'agosto del 1479, del progetto della Sublime Porta di sbarcare sulla costa salentina. Inoltre, il pasha di Valona, Ahmed, al quale era stato affidato il comando dell'operazione, aveva perfino chiesto alla Serenissima di unirsi all'attacco contro Ferrante, il quale nel 1477 (in pieno conflitto turco-veneziano) non aveva esitato a sottoscrivere un accordo con Maometto II, in base al quale i porti del regno sarebbero rimasti aperti alle navi ottomane purché il loro impiego militare fosse esclusivamente mirato contro Venezia. La Signoria tuttavia rifiutò l'accordo e allo stesso tempo, però, tacque la notizia tenendola nascosta a Roma e a Napoli.[2]

Il 2 luglio 1480, il Senato scriveva al capitano generale Vittore Soranzo come avesse ricevuto le sue quattro lettere, l'ultima datata 24 giugno 1480 da Corfù, così come un resoconto di Marco de Mello. Da questi dispacci la Serenissima aveva appreso non soltanto della partenza da Costantinopoli della flotta ottomana, ma anche di come essa si fosse divisa in due squadre, una diretta a Rodi e l'altra verso l'Adriatico. Il Senato istruì dunque Soranzo di sorvegliare le coste veneziane e di tenere pronta la flotta, ingaggiando battaglia soltanto in caso d'aggressione da parte dei turchi. Se invece la flotta ottomana avesse tirato dritto verso la Puglia, Soranzo avrebbe dovuto limitarsi a continuare la sua pattuglia nell'Adriatico oppure approdare a Corfù, a seconda della necessità, evitando categoricamente ogni scontro.[1] Una flotta di 28 galee turche, come previsto, sostò a Modone con la richiesta di viveri e di libero accesso fino alla Puglia. Il capitano generale Soranzo, raggiunti gli ottomani con le sue galee, s'accordò di procurare loro dei biscotti. Dopodiché, le galee turche salparono alla volta di Valona, attraversando il canale di Corfù, monitorati però dai veneziani che li seguivano attentamente da dietro per poi separarsi a Corfù. E da lì la flotta del Soranzo si levò una seconda volta per continuare a seguire da lontano le 70 galee ottomane, quando queste infine partirono alla volta di Otranto.[3]

L'occupazione turco-ottomana di Otranto

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L'arrivo dell'armata

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L'armata turca attraversò dunque il canale d'Otranto di notte e, il 28 luglio 1480, a causa di una portentosa tramontana, si ritrovò davanti a Otranto, porto facile da espugnare e più vicino alla costa albanese. Otranto era una città ricca e fiorente ma mal fortificata nei confronti di un attacco portato dalle artiglierie turche. Comandante della flotta turca era Gedik Ahmet Pascià, noto come Giacometto, di origine albanese, che era stato uno dei primi fra coloro che avevano istruito i Turchi sull'arte della navigazione. Gedik Ahmet Pascià era stato da poco nominato 'Sanjak-bey', (governatore) del sangiaccato (cioè parte di una provincia) di Valona.

La sua flotta era imponente. Stando alle varie fonti storiche essa era composta da un numero compreso tra le 70 e le 200 navi nominalmente capaci di trasportare tra i 18000 e i 100000 uomini: cifre in continua oscillazione nelle stime anche a seconda della classificazione di ciascuna imbarcazione poiché le armate marittime, oltre alle navi da guerra, includevano una serie di legni minori che andavano dalla nave da trasporto sino alla piccola barca di appoggio. Per approssimazione, la flotta doveva disporre in fatto di navi da guerra di 90 galee, 40 galeotte e altre 20 navi, per un totale quindi di circa 150 imbarcazioni. È più credibile quindi un numero trasportabile pari a 18000 uomini.

Il 28 luglio, presso i laghi Alimini, dalla flotta turca sbarcarono 16000 uomini (nella zona oggi chiamata baia dei Turchi). Nei primi momenti dello sbarco si scontrarono in isolate scaramucce con i soldati della guarnigione otrantina che cercava di bloccarli mentre scendevano dai navigli. Tuttavia, i soldati salentini furono messi alle strette dal continuo accrescersi delle forze turche e costretti a riparare nelle mura. Ahmet inviò un primo messaggero, di nome Turcman o Turciman, a trattare con gli idruntini: gli propose il permesso di lasciare la città senza colpo ferire a patto che prima abiurassero pubblicamente la fede in Cristo. Il popolo insorse contro il mediatore, che però scampò al linciaggio e comunicò al Pascià il rifiuto di Otranto alla conversione. Un secondo messaggero, forse latore di un ultimatum, non riuscì nemmeno ad avvicinarsi a Otranto perché fu trafitto da una freccia alle porte della città.

A quel punto, portate a terra le artiglierie, Ahmet Pascià cominciò l'assedio. Il 29 luglio la guarnigione e tutti gli abitanti abbandonarono il borgo in mano ai Turchi per ritirarsi nel castello che ne costituiva la cittadella. Già il giorno successivo al primo attacco i Turchi, occupato il borgo, compivano razzie nei casali vicini.

A difendere Otranto c'erano solo 2.000 uomini guidati dai capitani Francesco Zurolo e Giovanni Antonio Delli Falconi; la città sguarnita e mal difesa, non avrebbe potuto contenere a lungo l'impeto dell'artiglieria turca, ma volle resistere comunque. Quando Ahmet Pascià pretese la resa dai difensori, questi rifiutarono immediatamente. il Capitano Zurolo sdegnosamente respinse la proposta di Ahmet – la vita in cambio della resa – e in risposta le artiglierie turche martellarono immediatamente con il loro fuoco la città. Subito partirono dei messaggeri per avvisare il re di Napoli, che si apprestò ad inviare richieste d'aiuto ai regni cristiani.

La cittadella otrantina era sprovvista di cannoni e le sue mura vennero incessantemente colpite dalla formidabile artiglieria ottomana. Gli otrantini opposero un'eroica resistenza; durante la notte e nella situazione più disperata, il popolo guidato da Ladislao De Marco, si raccolse nella cattedrale e qui giurò di resistere sino all'ultimo.

Le truppe musulmane si erano divise in due gruppi. Di questi uno proseguiva il bombardamento e l'assedio e l'altro, separato in piccoli reparti, dilagava nel territorio saccheggiando, devastando, facendo molti schiavi e sconfinando anche a Lecce e Taranto.

La difesa si protrasse disperatamente per due settimane, ma restò vana l'attesa dei soccorsi di Ferrante, re di Napoli, e del di lui figlio Alfonso duca di Calabria. In effetti, però, agli appelli del re risposero il cugino Ferdinando il Cattolico e il Regno di Sicilia, in quel tempo guidato dal Viceré Gaspare de Spes. Si cominciarono ad ammassare navi nei porti per creare una flotta cristiana, ma occorreva più tempo per prepararsi alla guerra.

La caduta di Otranto

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La resistenza eroica

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L'11 agosto, dopo 15 giorni d'assedio, Ahmet ordinò l'attacco finale, durante il quale riuscì a sfondare. I Turchi entrarono nella città attraverso la "Porticella", il più piccolo ingresso a Otranto posto sul lato nord-est delle mura. In breve il castello fu espugnato. Il grande divario di forze aveva deciso l'esito dell'assedio.

Francesco Zurolo era stato gravemente ferito al braccio in un assalto del giorno precedente, ciò nonostante si fece trovare con le armi in pugno dietro alla breccia. Dopo un'eroica resistenza, morì combattendo insieme al figlio (quest'ultimo secondo un'altra versione venne preso prigioniero). Dopo di lui accorse Giovanni Antonio Delli Falconi con i propri uomini, e anch'egli soccombette dopo una breve difesa. I cittadini si difesero fino all'ultima strada, e gli ultimi superstiti si asserragliarono nella cattedrale insieme al clero.[4]

Le crudeltà dei turchi sugli otrantini

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Il racconto delle crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini impressionarono l'intera Europa. Dopo aver fatto irruzione nella Cattedrale, i turchi trucidarono i religiosi presenti, compreso l'arcivescovo Stefano Agricoli detto Stefano Pendinelli, che fu decapitato (o secondo altre fonti impalato) e la cui mitria fu condotta a spregio per la città.[5]

Tutti i maschi maggiori di quindici anni furono uccisi, i neonati sgozzati, mentre le gestanti furono costrette ad abortire. Le donne, insieme ai bambini e alle bambine, furono violentate, quindi costrette ad uno stato di nudità prolungata. Successivamente, ridotte in schiavitù, dovettero servire ai bisogni dei turchi nelle faccende quotidiane. Alcuni testimoni sostengono che solo le più belle furono risparmiate, insieme ai bambini, per essere inviate a Valona e quindi essere vendute sui mercati da schiavi, mentre le altre furono ben presto uccise.[5]

Stando ad alcune stime i morti furono 6.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e per effetto dei bombardamenti delle grosse artiglierie).

Gli Ottocento martiri

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Al termine del massacro, gli uomini superstiti erano circa ottocento. Il 14 agosto Ahmet li fece legare e trascinare sul vicino colle della Minerva. Impose loro di convertirsi all'islam, o di pagare un riscatto per la propria liberazione, promettendogli salva la vita, ma l'anziano cimatore di panni Antonio Pezzulla, detto Primaldo, esortò i compatrioti a mantenersi fedeli a Cristo. La maggioranza di costoro, dopo aver assistito allo strazio delle proprie famiglie, preferì la morte e il martirio, cosicché Ahmet ne ordinò la decapitazione.[4][5]

Lapide commemorativa sulle mura del lungomare

Tutte queste persone, alle quali è dedicata una lapide posta sul lungomare di Otranto, vennero riconosciute martiri dalla Chiesa e venerati come beati martiri idruntini. La maggior parte delle loro ossa si trova in sette armadi di legno collocati nella Cappella dei Martiri, ricavata nell'abside destro della cattedrale di Otranto; sul Colle della Minerva fu costruita la chiesetta a loro dedicata, Santa Maria dei Martiri. Tra gli 800 martiri idruntini, si ricorda in particolare la figura di Macario Nachira, monaco basiliano di Uggiano la Chiesa.

La spedizione per liberare Otranto

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I Turchi, occupata Otranto, la utilizzarono come base per scorrazzare indisturbati in tutta la Puglia fino al Gargano. La reazione napoletana, una volta caduta la città, rallentò, anche perché Venezia persisteva nella sua neutralità (non avendo alcuna intenzione di farsi coinvolgere in una nuova guerra anti-ottomana dopo aver faticosamente ottenuto un trattato di pace nel 1479) e gli altri Stati italiani erano interessati più alle guerre in terraferma che sul mare. Da questo indugiare i Turchi ricavarono il tempo per fortificare Otranto secondo concetti difensivi avanzati.

Ferrante, mentre a fine agosto era riuscito a radunare una flotta a Messina con l'aiuto di Catalani e Siciliani[6], a metà dello stesso mese aveva richiamato dalla Toscana il figlio Alfonso. Questi era in quella regione con gran parte dell'esercito napoletano e avrebbe potuto dirigersi su Otranto per la via degli Abruzzi. Perciò a fine agosto 1480 Ahmet Pascià compì una manovra diversiva per disorientare Alfonso. Attaccò dal mare, con 70 navi, la città di Vieste nel Gargano e la mise ferro e fuoco. Il 12 settembre i Turchi incendiavano la chiesetta di Santa Maria di Merino, posta a sette chilometri a nord di Vieste (questa chiesa era quanto rimaneva di un antico borgo e custodiva al suo interno la Madonna di Merino, opera in tiglio dei secoli XIV-XV, immagine oggetto di venerazione in tutto il territorio di Vieste e meta di frequenti pellegrinaggi).

Saldo sulle sue posizioni, nell'ottobre del 1480 Gedik Ahmet Pascià ripassò il Canale di Otranto con gran parte delle sue truppe dopo aver ripetutamente devastato con continue scorrerie i territori di Lecce, Taranto e Brindisi. Lasciò a Otranto solo una guarnigione di 6.500 fanti e 500 cavalieri. La sua decisione era dettata soprattutto dalla difficoltà di non poter mantenere tutto l'inverno un grosso esercito in armi; inoltre, avendo fatto fortificare Otranto, poteva bastare una guarnigione più ridotta.

Si stava ricompattando la parte anti-turca. Una crescente pressione veniva dalle forze napoletane finanziate dal denaro fiorentino e supportate attivamente da Sisto IV che proclamò la crociata contro i Turchi.

Era tuttavia certo che il pascià pensasse di trascorrere l'inverno nei territori ottomani per ripassare lo stretto l'anno dopo. Restava il mito dell'invincibilità turca e per tutto l'inverno il terrore in Italia fu altissimo e proliferarono le voci di un abbandono di Roma da parte del papa.

L'arrivo dell'esercito cristiano

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Con l'arrivo della buona stagione, l'aragonese accelerò le operazioni di assedio grazie agli aiuti ottenuti dagli Stati italiani che infine si resero conto del pericolo per la loro sopravvivenza rappresentato dall'occupazione turca.
Il primo maggio si mise il campo presso Otranto con imponenti apparati difensivi studiati da Ciro Ciri (detto Ciro di Castel Durante, "maestro ingegnere" inviato dal duca di Urbino) e dal francese Pietro d'Orfeo.

Sternatia fu il quartier generale delle truppe napoletane al comando di Giulio Antonio Acquaviva, duca di Atri e conte di Giulianova e Conversano. Quest'ultimo il 7 febbraio 1481 effettuò una perlustrazione con un gruppo di dodici uomini, ma nelle vicinanze di Serrano cadde in un'imboscata tesa dai Turchi che il giorno prima avevano saccheggiato Soleto e stavano rientrando ad Otranto. Il suo corpo decapitato rimase in arcione sul suo cavallo che lo riportò indietro, al castello di Sternatia. L'azione di Acquaviva in compenso portò fama e notorietà al suo casato, che per essa venne investito da re Ferrante dell'attributo reale D'Aragona, ereditato a partire dal figlio Andrea Matteo (il quale fu pure impegnato, nel maggio 1481, nella liberazione di Otranto).

Nei suoi Stati, Sisto IV aveva intanto armato ad Ancona 5 galee. Inviò inoltre il cardinale Savelli a Genova per noleggiare altre 20 unità. Da Genova riuscì a ottenere molte galee (74 secondo Pastor, ma più probabilmente 24, come attesta Giustiniani). Il 30 giugno 1481 le galee si radunarono alla foce del Tevere, ove si svolse un rapido concistoro al termine del quale venne destinato comandante il nobile genovese Paolo Fregoso, già arcivescovo, doge, pirata e infine cardinale. Dopo l'investitura ufficiale, Fregoso il 4 luglio salpò da Civitavecchia e a Napoli si riunì alla squadra del reame, comandata da Galeazzo Caracciolo, condottiero (da distinguere dal nipote omonimo, il calvinista Galeazzo Caracciolo) e alle milizie inviate dal re d'Ungheria. L'armata fu inoltre ampliata dalle altre galee portoghesi e napoletane convogliate prima a Roma, quindi proseguì per l'Adriatico, mentre da terra Alfonso di Calabria si preparava con un grosso esercito ad assediare Otranto di cui 15.000 uomini e 3.000 cavalieri.

L'abbandono dell'impresa per la morte di Maometto II

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La città era stretta d'assedio, sia per terra sia per mare, dove continuava a ingrossarsi la flotta cristiana.

A risolvere la situazione fu la morte del cinquantaduenne sultano Maometto II, avvenuta tra il 3 e il 4 maggio 1481. L'avvenimento decise le sorti dell'assedio e fu accolto con sollievo da parte dei cristiani, poiché la successione del sultano ottomano aveva aperto le ostilità tra due dei suoi figli, Bayezid e Cem. In conseguenza era sorta una nuova crisi per l'impero turco, per il vuoto politico creatosi, e Ahmet venne richiamato in patria.

A Otranto l'esercito ottomano, privo di rinforzi e pressato dagli eserciti e dalle milizie cristiane, subì il 23 agosto un violentissimo attacco che provocò nelle due parti notevoli perdite umane.

I Turchi furono costretti dopo una disperata resistenza a cedere, e Ahmet Pascià accettò una resa dignitosa. Il 10 settembre 1481 riconsegnò la città al duca Alfonso di Calabria, arrendendosi onorevolmente e tornando a Valona: i Turchi restituivano una città ridotta a un cumulo di macerie, nella quale erano sopravvissuti solo 300 abitanti.

Gedik Ahmet Pascià non abbandonò mai del tutto il suo sogno di conquiste nella penisola: fu anche per questo che tra i due figli del sultano in lotta fra loro appoggiò subito Bayezid II e gli chiese il supporto per la spedizione in Italia. Bayezid però, non fidandosi di lui, lo richiamò a Costantinopoli dove lo fece imprigionare. Quando Bayezid divenne sultano, diede l'ordine di assassinare Ahmet, ordine eseguito il 18 novembre 1482 a Edirne.

I preparativi per la spedizione contro i Turchi

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Il re di Napoli inviò a Sisto IV l'ambasciatore Francesco Scales il quale, assieme all'oratore Aniello Arcamone, espose il pericolo incombente su tutta la cristianità e soprattutto sulle terre della Chiesa e sulla stessa persona del pontefice qualora i Turchi avessero invaso il Regno di Napoli.

La caduta e il massacro di Otranto suscitarono viva emozione tra i cristiani; ma anche i timori di una possibile invasione, per cui alla corte pontificia qualcuno arrivò addirittura a proporre il trasferimento della corte papale ad Avignone.

Sisto IV riprese in mano la situazione. Concluse la pace con Firenze (per la quale pertanto l'attacco musulmano significò la salvezza) e, fattosi promotore di una tregua tra i vari Stati italiani, pubblicò una bolla con il bando di crociata cui invitò tutti i principi cristiani. Sisto IV costituiva così un'alleanza di Genova con Firenze, con il re d'Ungheria e i duchi di Milano e Ferrara.

Gli aiuti promessi dalla cristianità tardavano ad arrivare ed erano evidenti le disparità tra le forze in campo. L'inverno del 1481 passava nelle vane promesse di aiuti, mentre gli Ottomani ricevevano via mare rinforzi; alcune scaramucce nell'entroterra e sulle acque non sembravano decidere le sorti dell'occupazione: i Turchi rimanevano saldamente padroni della città, nonostante gli attacchi che si facevano sempre più frequenti.

Al momento di realizzare la crociata sopraggiunse una serie di defezioni, lasciando il papa e Ferrante soli nell'impresa: Bologna era propensa ad armare solamente una decina di triremi; il re d'Inghilterra Edoardo IV, che mirava alla Scozia ed aveva da poco archiviato la guerra delle due rose, si ritirò dalla Lega; Luigi XI di Francia, più preso dalle sue discordie con Massimiliano d'Asburgo, lasciò intravedere deboli disponibilità da parte sua.

Venezia, reduce da un conflitto lungo sedici anni contro gli stessi Turchi, non rispose all'appello optando per la neutralità. Questa scelta inevitabilmente guadagnò alla Serenissima aspre critiche e calunnie,[1] accusandola di aver pianificato lo sbarco dei Turchi in combutta col suo alleato Lorenzo de' Medici. Certamente ambedue avevano molto da guadagnarci: tacendo sui piani della Sublime Porta, Venezia indeboliva Napoli e si vendicava dei danni inflittele da Ferrante durante la crisi dinastica cipriota e la guerra turco-veneziana, quando il re aveva concesso i porti salentini agli Ottomani come basi militari d'appoggio contro la flotta veneziana.[2] Lorenzo, dal canto suo, si vedeva liberato della presenza in Toscana delle truppe del duca di Calabria Alfonso d'Aragona, il quale abbandonò precipitosamente Siena alla volta di Otranto.[1] A sostegno, però, dell'esistenza di tale congiura veneto-fiorentina non esistono prove concrete, teorizzandola i cronisti in base a vari indizi, fra cui il commento dell'ambasciatore veneziano a Roma Zaccaria Barbaro – "tuta Italia ha ad esser obligata al Turcho, perché s'el non havesse dato impaxo ad questo Re, sua M.tà seria signore de Sena, et intendeva de farse Re de Italia"[7] – riferito però più al ritiro di Alfonso dalla Toscana che al massacro di Otranto.[1]

Alle critiche s'aggiunse anche la coniazione di una medaglia commemorativa commissionata da Lorenzo in onore del sultano, la quale non riporta però alcun riferimento alle vicende otrantine. Lorenzo il 30 novembre 1480 dichiarò pubblicamente che il popolo fiorentino avrebbe preferito cadere "ne le mane del Turcho che lassare le sue terre ne le mani de' Senesi et de li loro nimici", dichiarando che non avrebbe inviato alcun aiuto a re Ferrante se questi prima non gli avesse restituite le terre tolte. Questo agire parve a Ferrante un insolente ricatto, cosicché a fine dicembre dette ad intendere che la sua alleanza con Firenze e Milano doveva considerarsi sciolta.[8] Infine, dopo aver visto fallire le trattative di pace con Venezia e coi Turchi e trovandosi a corto di denaro, nel marzo del 1481 Ferrante decise di restituire – dopo oltre due anni – le terre ai Fiorentini. Ciò comportò per lui la perdita dell'amicizia dei Senesi, ma la restaurazione della lega con Firenze e Milano e l'invio di un contributo di 20.000 fiorini da parte di Lorenzo.[9]

Venezia, preoccupata della sgradita presenza ottomana nell'Adriatico e al contempo decisa ad evitare ad ogni costo un nuovo conflitto, stringerà la maglia difensiva della sua flotta sul Golfo, come testimoniano i dispacci dal 9 agosto in poi al capitano generale Vittore Soranzo. Sia il Magnifico che la Serenissima dimostrarono infine grande sollievo nell'apprendere la notizia del ritiro dei Turchi da Otranto a seguito della morte di Maometto II.[1] Va infatti considerato come nessuno dei due si fosse figurato una vera e propria occupazione della città salentina, giudicando l'impresa ottomana una semplice incursione atta al saccheggio e alla dispersione della flotta napoletana.

Le esortazioni di Sisto IV per proseguire la spedizione

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Sisto IV, affidandosi anche all'intercessione dei Protomartiri francescani[10], si complimentò con Fregoso e lo esortò a proseguire per Valona, città che intendeva riconquistare con l'aiuto albanese. Caracciolo concordava con il disegno papale di attacco in Albania e distruzione della flotta turca, ma Fregoso non volle muoversi da Otranto. In seno alla sua armata erano sorte grosse dispute sulla ripartizione del bottino e sul mancato invio della paga lamentato dai capitani, e a completare la crisi erano giunti alcuni casi di peste, per cui i proprietari delle galee genovesi non ne vollero sapere di proseguire l'impresa. Fregoso falsificò gli ordini papali e comunicò il suo rientro al re di Napoli; per Sisto IV, che considerava il momento delle discordie tra Cem e Bayezid come opportuno per terminare l'impresa, fu un vero colpo.

Fregoso non si curò affatto della disciplina. Tra l'altro lo pressava il bisogno di rientrare a Genova dove proprio allora aveva occasione di recuperare il dogato. Giunto a Civitavecchia continuò a rifiutare le proposte di un papa disposto anche a vendere il pontificio vasellame d'argento e a impegnare la mitria pur di ottenere i finanziamenti necessari a pagare i soldati e proseguire la guerra; si rivelò irremovibile e l'armata fu sciolta. Le speranze del papa si infransero: delle galee promesse dal re di Portogallo e di quelle annunciate da Ferdinando d'Aragona, futuro Ferdinando il Cattolico, non si vide neppure l'ombra.

Nella cultura di massa

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Letteratura

Le vicende della battaglia vennero narrate in varie opere da:

  • Giuseppe Castiglione in Rinnegato salentino ossia i martiri d'Otranto. Racconto storico del secolo XV (1839);
  • Giuseppe Trecca nel dramma storico in cinque quadri I Martiri di Otranto. Il più fulgido episodio della storia d'Italia (1955);
  • Maria Corti nel romanzo L'ora di tutti (1962);
  • Carmelo Bene nel romanzo, nell'opera teatrale e nel film Nostra Signora dei Turchi (1966);
  • Rina Durante nella versione sceneggiata Il sacco di Otranto;
  • Franco Baldi e Giovanni Ballati nel fumetto Gli 800 Martiri – La presa di Otranto (2017).
Cinema
Televisione
  • Una versione estremamente romanzata della battaglia è raccontata anche nella 3ª stagione della serie TV Da Vinci's Demons;
  • All'assedio è dedicata una puntata del programma Rai Cronache del Rinascimento.
  1. ^ a b c d e f Kenneth Meyer Setton, p. 365.
  2. ^ a b Federico Moro, pp. 225-227.
  3. ^ Marin Sanudo, pp. 175-176.
  4. ^ a b Grazio Gianfreda, Otranto nella storia, Edizioni del Grifo, 1997.
  5. ^ a b c Autori varii, Gli umanisti e la guerra otrantina. Testi dei secoli XV e XVI, a cura di L. Gualdo Rosa, I. Nuovo, D. Defilippis, Dedalo, 1982.
  6. ^ Gaetano Conte, pp. 165-175.
  7. ^ Ernesto Pontieri, p. 331.
  8. ^ Ernesto Pontieri, pp. 336-338.
  9. ^ Ernesto Pontieri, pp. 347-349.
  10. ^ Giuseppe Cassio, pp. 361-376.
  • Giuseppe Cassio, Il riflesso della Guerra d'Otranto nel dipinto dei Protomartiri francescani a Napoli, in Italia francescana 88, 2013.
  • Gaetano Conte, Le istruzioni segrete del Ventimiglia (Otranto, agosto 1480), in Itinerari di Ricerca Storica, 2018.
  • Federico Moro, Venezia, offensiva in Italia. 1381-1499. Il lungo secolo di San Marco, Gorizia, Leg Edizioni, 2019, ISBN 9788861026186.
  • Ernesto Pontieri, Ferrante d'Aragona re di Napoli, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969.
  • Marin Sanudo, Vite dei Dogi. 1474-1494, a cura di Angela Caracciolo Aricò, vol. 1, Roma-Padova, Editrice Antenore, 2002, ISBN 8884554829.
  • (EN) Kenneth Meyer Setton, The Papacy and the Levant, 1204-1571, vol. 2, Philadelphia, American Philosophical Society, 1997, ISSN 0065-9738 (WC · ACNP).
  • Vito Bianchi, Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista, Roma/Bari, Laterza, 2016.

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