Intraducibilità

L’intraducibilità consiste nell'impossibilità di trovare un equivalente di un testo scritto o orale nella traduzione in un'altra lingua. Un testo è intraducibile quando è difficile giungere a una cosiddetta traduzione perfetta, perché contiene concetti e parole talmente interconnessi da rendere impossibile la loro traduzione.[1] Un testo considerato intraducibile rappresenta una lacuna o un vuoto lessicale. Alcuni ritengono che ogni lingua porti con sé nozioni e concetti strettamente legati alla cultura e all'identità nazionale.

Il traduttore può comunque ricorrere a diverse strategie traduttive per colmare eventuali vuoti lessicali e, di conseguenza, evitare eccessivi problemi in termini di "relatività linguistica". Le strategie traduttive, ovvero i metodi che mirano a risolvere determinati problemi di traduzione,[2] permettono quasi sempre di tradurre il significato di un testo o di una parola, anche quando non dovesse esistere un equivalente esatto nella lingua di arrivo.

Sostenendo che l’intraducibilità è spesso addotta dalle nazioni come prova del genio nazionale James Brian Baer cita Alexandra Jaffe a sostegno della sua ipotesi, la quale afferma che quando i traduttori parlano di intraducibilità, spesso contribuiscono a diffondere l’idea che ogni lingua abbia un proprio genio, un'essenza che la distingue in modo naturale dalle altre lingue e che riflette lo spirito della sua cultura e del suo popolo.[3]

La scuola di pensiero di cui Walter Benjamin è il massimo esponente mette in relazione il concetto di “sacralità” con la traduzione di un testo, che viene considerato intraducibile a causa dell'inscindibilità di significato e significante.[4] Il concetto di sacralità trae origine dall’idea secondo cui la traduzione dovrebbe riuscire a rimanere perfettamente aderente al testo originale.[5] Questa teoria evidenzia la natura paradossale della traduzione che, in quanto processo, diventa contemporaneamente necessaria ed impossibile. Ciò è stato dimostrato dall’analisi di Jacques Derrida sul mito di Babele, nome che implica confusione ma che è, allo stesso tempo, uno dei diversi modi per riferirsi a Dio.[6] Derrida affermava infatti che, nel condannare il mondo a parlare molteplici lingue, Dio aveva creato il paradosso del bisogno e dell’impossibilità della traduzione.[6]

Lo stesso Derrida propose una propria idea di intraducibilità, affermando in alcuni dei suoi primi lavori quali La scrittura e la differenza e Margini della Filosofia che vi è un eccesso di significati intraducibili in letteratura e che questi non possono essere ridotti all’utilizzo di sistemi chiusi o di un’economia ristretta[2] nella quale “non c’è nulla che non possa essere reso sensato”.[7]

Per Brian James Baer, poiché le nazioni spesso ritengono che l’intraducibilità sia prova del genio nazionale, un testo letterario che può essere facilmente tradotto probabilmente mancherà di originalità, mentre le traduzioni potranno unicamente essere considerate imitazioni. Baer, citando Jean-Jacques Rousseau, definisce il vero genio come ciò che crea tutto dal nulla. Parafrasando un’affermazione di Robert Frost riguardo alla poesia (“La poesia è tutto ciò che si smarrisce nella traduzione”),[8] Baer afferma che tutto ciò che va perduto nel processo traduttivo può essere definito identità nazionale.

Spesso ci si riferisce ad un testo o ad un'espressione considerata “intraducibile” con il termine di lacuna o vuoto lessicale. Ciò accade quando non esiste un perfetto equivalente di una parola o di una espressione appartenente alla lingua di partenza nella lingua di arrivo. Un traduttore può comunque ricorrere a diverse strategie traduttive per ovviare a questo problema. Da questo punto di vista l’intraducibilità o la difficoltà nel tradurre non creano eccessivi problemi di relatività linguistica; la denotazione può quasi sempre essere tradotta, sebbene possa richiedere l’utilizzo di perifrasi, mentre la connotazione può risultare difficile o impossibile da comunicare.

Strategie traduttive

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Le principali strategie utilizzabili in caso di lacune o vuoti lessicali nella lingua di destinazione sono le seguenti:[9]

L’adattamento, conosciuto anche come traduzione libera, è una strategia tramite la quale il traduttore sostituisce un termine legato culturalmente alla lingua del testo originale, dunque comprensibile solo ai parlanti della lingua di partenza, con un termine culturalmente legato alla lingua del testo di arrivo, comprensibile ai parlanti di quest’ultima. Ad esempio, nel fumetto belga Le avventure di Tintin, Milou, l’aiutante canino di Tintin, viene chiamato Snowy in inglese, Bobbie in olandese, Kuttus in bengali e Struppi in tedesco; anche i nomi dei due poliziotti, Dupont e Dupond, vengono tradotti diventando Thomson e Thompson in inglese, Jansen e Janssen in olandese, Jonson e Ronson in bengali, Schultze e Schulze in tedesco, Hernández e Fernández in spagnolo, 杜本 e 杜朋 (Dùběn e Dùpéng) in cinese, Dyupon e Dyuponn in russo e Skafti e Skapti in islandese. L’adattamento viene spesso utilizzato nelle traduzioni di poesie, testi teatrali e pubblicità.

Prestito linguistico

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Il prestito linguistico è una strategia traduttiva tramite la quale il traduttore utilizza nel testo d’arrivo un termine o un'espressione del testo di partenza lasciandola invariata.

Un prestito va scritto di norma in corsivo se non è considerato lemmatizzato (lemma linguistica) nella lingua d'arrivo.

Calco linguistico

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Il calco linguistico è una nuova parola della lingua d'arrivo creata sulla base della struttura della parola della lingua di partenza. Per esempio, la parola “grattacielo” è un calco morfologico dall'inglese skyscraper, dove grattare sta per to scrape e cielo sta per sky. Prima della creazione di questo termine, l'italiano non aveva una parola per indicare questo tipo di edifici metropolitani. La traduzione parola per parola può risultare comica, ma può rivelarsi un ottimo mezzo per conservare il più possibile lo stile originale, soprattutto quando il testo di partenza è ambiguo o indecifrabile per il traduttore.

La parafrasi, o perifrasi, è un procedimento di traduzione con il quale il traduttore sostituisce una parola del testo di partenza con un gruppo di parole, o con un’espressione, nella lingua d’arrivo. Un chiaro esempio di intraducibilità è dato dalla parola portoghese Saudade, che non ha un traducente preciso. Letteralmente significa “sentimento di nostalgico rimpianto, di malinconia, di gusto romantico della solitudine, accompagnato da un intenso desiderio di qualcosa di assente”[10]. Un esempio simile è la parola rumena dor, traducibile all’italiano come “nostalgia o mancanza di qualcuno o qualcosa che non c’è più o che momentaneamente non può esserci”.

Un altro esempio di intraducibilità è rappresentato dalla parola olandese gezellig, che non ha un traducente preciso. Letteralmente significa “accogliente, divertente, gentile”, ma può anche indicare il tempo passato con le persone care, un incontro con un amico dopo tanto tempo o un senso di particolare affinità.

Note del traduttore

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Le note del traduttore, talvolta abbreviate in NdT o N.d.T., sono note (di norma a piè di pagina o a fine testo) che il traduttore aggiunge per fornire informazioni sui limiti della traduzione, sulla cultura del testo di partenza, o altre informazioni che considera utili.

Tali note sono a volte permesse, e a volte perfino richieste, nelle prove di traduzione. Tuttavia alcuni traduttori professionisti vedono il ricorso a note come un’ammissione di fallimento.

Spesso, per motivi di peculiarità linguistica e/o culturale dei vari paesi, la traduzione di vocaboli riguardanti la famiglia può risultare difficile. Ad esempio, la maggior parte delle parole thailandesi relative alla famiglia, non può essere tradotta parola per parola e sono quindi necessarie ulteriori specificazioni nel testo di arrivo per far sì che concetti propri della cultura thailandese non vadano perduti. Per esempio, in thailandese fratelli e sorelle si distinguono non per genere, ma per età. Il figlio maggiore è detto พี่ (pii), mentre i minori น้อง (non). Zii e zie sono definiti diversamente a seconda che siano fratelli maggiori o minori e a seconda che siano parenti da parte di madre o di padre. Ad esempio น้า (naa) identifica il fratello minore della sorella, e così via. Un fenomeno simile è osservabile nella lingua indonesiana, dove i pronomi possono essere utilizzati sia con un registro formale che con un registro informale o familiare. Tuttavia però, quest’ultimo registro non trasmette informalità e cordialità, specialmente nella lingua parlata. Invece di dire Anda mau pesan apa?, un/a cameriere/a sarà più propenso a dire Bapak/Ibu mau pesan apa? (lett. Il Sig./La Sig.ra cosa vuole ordinare?'). Pur essendo entrambe espressioni di cortesia, la seconda risulta più cordiale e garbata. Invece, quando ci si rivolge ad un amico o ad un familiare, la maggior parte degli indonesiani preferisce utilizzare espressioni che sottolineano il grado di parentela (ad es. madre, padre, fratello, sorella), specialmente se ci si riferisce ad un membro più anziano della famiglia. Quando invece ci si rivolge a membri della famiglia più giovani, l’utilizzo di pronomi informali prevale.

Tradurre il verbo “avere” da lingue quali arabo, finlandese, hindi, ungherese, irlandese, giapponese, gallese, ebraico e urdu, può creare non poche difficoltà. In queste lingue infatti, non esiste un verbo specifico che esprima il concetto di “avere”. Invece di dire “io ho qualcosa”, vengono utilizzate delle costruzioni diverse che indicano che quel “qualcosa” al quale ci si riferisce è posseduto da qualcuno, nel nostro esempio dal soggetto “io” . Perciò in turco si dirà “c'è qualcosa di mio”, mentre in ebraico “qualcosa è a me”.

In russo, al posto di utilizzare la struttura “io ho”, si ricorre alla struttura “presso di me c'è”.

In giapponese invece, il verbo “avere” viene spesso tradotto con i verbi iru (いる o 居る) e aru (ある o 有る). Il primo verbo si utilizza in riferimento a persone, animali o altri esseri viventi (escluse le piante) mentre il secondo, che possiede un significato più simile a quello del verbo “avere”, si usa con sostantivi inanimati. Per esprimere possesso, la lingua giapponese utilizza il verbo motsu (持つ), che significa “tenere”.

Forme verbali

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In italiano non esiste un modo per esprimere alcune forme verbali come il finlandese kirjoittaa e il polacco pisać (continuativo, corrispondente all’italiano “scrivere”) o kirjoitella e pisywać (verbi frequentativi traducibili come “prendere appunti di tanto in tanto”). Altri esempi sono hypätä e skoczyć (fare un unico salto) o hyppiä e skakać (saltare in modo continuativo; saltare da “A a B”).

A differenza dell’inglese, la lingua irlandese permette l’uso dell’imperativo al passivo. Si usa per proibire qualcosa esprimendo al tempo stesso la disapprovazione della società per una determinata azione. Per esempio, è interessante confrontare Ná caithigí tobac (che significa “non fumare” se detto a più persone) con Ná caitear tobac, che invece si traduce con “qui è vietato fumare”, o “non si fuma”.

In italiano esistono tre tempi passati, ossia passato remoto, imperfetto e passato prossimo, mentre essi corrispondono generalmente al past simple inglese. Fui, ero, e sono stato si traducono infatti in inglese con I was. Generalmente, il passato remoto serve per indicare un’azione conclusa in un passato lontano e si trova spesso nelle narrazioni (ad esempio nei romanzi), l’imperfetto serve per indicare azioni continuative o abituali nel passato, mentre il passato prossimo si usa per azioni connesse al presente e soprattutto con indicatori di tempo che indicano la prossimità dell’azione, come ad esempio “stamattina”. Tuttavia, secondo l'Accademia della Crusca la scelta tra il passato remoto e il passato prossimo in italiano dipende dalla percezione dell'evento considerato, e quindi dalla collocazione che gli si attribuisce a livello temporale, e non dall'oggettiva distanza nel tempo dell'evento stesso. Pertanto si utilizza il passato prossimo nel caso in cui l'evento può essere messo in relazione con il presente in quanto lo si percepisce come vicino, e viceversa, si opta per il passato remoto quando l'evento viene percepito come distante o non hanno alcuna relazione oggettiva con il presente.[11] Al giorno d’oggi, non c’è più una distinzione netta tra passato prossimo e remoto nella lingua parlata. Si tratta in parte di una differenza geografica influenzata dai dialetti, come sottolineato dalla stessa Accademia della Crusca. Nel Nord Italia si predilige l'uso del passato prossimo, mentre al Sud esso spesso prevale il passato remoto. Questa distinzione si mantiene soltanto in Toscana.[11]

In italiano non ci sono forme verbali per indicare l'azione indiretta; per questo motivo bisogna ricorrere alla parafrasi. In finlandese, invece, è possibile produrre una serie di verbi derivativi, ciascuno dei quali veicola un’azione che diventa progressivamente più indiretta. Ad esempio, sulla base del verbo “vetää” (tirare) possono formarsi una serie di verbi:

  • vetää (tirare),
  • vedättää (far sì che qualcuno o qualcosa tiri);
  • vedätyttää (far sì che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno o qualcosa tiri);
  • vedätätyttää (far sì che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno tiri).
Finlandese Italiano Traduzione o perifrasi della parte in grassetto
Hevonen vetää. Il cavallo tira Tirare
Ajomies vedättää. Il cocchiere ordina al cavallo di tirare Far sì che qualcuno o qualcosa tiri
Urakoitsija vedätyttää. Il superiore richiede al cocchiere di ordinare al cavallo di tirare Far sì che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno o qualcosa tiri
Yhtiö vedätätyttää L'azienda assegna al superiore il compito di richiedere al cocchiere di ordinare al cavallo di tirare. Far sì che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno tiri

In hindi esistono costrutti simili che indicano il grado di azione indiretta. Karna significa fare, karaana significa “far fare a qualcuno”, karwaana “far in modo che una persona faccia fare qualcosa a qualcun altro”.

Nella maggior parte delle lingue turche (turco, azero, kazako, ecc.) il suffisso verbale miş (o mis in altri dialetti), indica che chi parla non ha assistito direttamente all’azione ma fa una congettura o riporta ciò che gli è stato raccontato da qualcuno. Ad esempio, la parola turca Gitmiş! può significare sia “hanno detto che è uscito/a” sia “sembra che sia uscito/a”. Inoltre, questa struttura grammaticale viene spesso utilizzata quando si scherza o si raccontano storie.

Anche nelle lingue quechua quasi ogni frase evidenzia tramite un clitico la fonte di informazione del parlante (e il grado di certezza dell’affermazione). L’enclitico -mi esprime la conoscenza personale (Tayta Wayllaqawaqa chufirmi, "il Sig. Huayllacahua è un autista, lo so di certo"); -si esprime una conoscenza per sentito dire (Tayta Wayllaqawaqa chufirsi, il Sig. Huayllacahua è un autista, o così ho sentito dire”); -chá esprime un’alta probabilità Tayta Wayllaqawaqa chufirchá, "il Sig. Huayllacahua è un autista, probabilmente”). Nel parlato quest’ultimo suffisso viene utilizzato anche per esprimere ciò che il parlante ha sognato o descrivere esperienze allucinogene.

Lingue che sono molto diverse tra loro, come l’italiano e il cinese, richiedono un adattamento più che una traduzione. In cinese non esiste il tempo verbale in quanto tale, ma ci sono tre aspetti verbali. Il verbo “essere” italiano non ha un corrispettivo diretto in cinese. In questo modo il verbo “essere” seguito da un aggettivo (ad esempio “è blu”) in una traduzione verso il cinese sarà omesso. In cinese non esistono gli aggettivi come intesi in italiano, ma esistono invece dei verbi stativi. Se si parla di un luogo si usa il verbo “zai” (在), come nella frase “siamo in casa”. In altri casi si usa il verbo “shì” (是), come nella frase “sono il capo”. La maggior parte delle volte si omette semplicemente, ricorrendo a qualche altra struttura cinese. In una frase in cui il significato del verbo “essere” cambia, questa differenza si perde nella traduzione cinese. Anche dei semplici concetti come “sì” possono risultare difficili da tradurre in cinese, considerato che non esiste un equivalente, ma la risposta affermativa si esprime ripetendo il verbo della frase interrogativa (“Ce l’hai?” “Ce l’ho”).

Il tedesco, il neerlandese e il danese sono lingue ricche di particelle modali particolarmente difficili da tradurre dato che conferiscono significato o tono piuttosto che informazioni grammaticali. L’esempio più famigerato è forse il doch (neerlandese: toch; danese: dog) che significa qualcosa di simile a “Non ti pare che…” o “In realtà sì, anche se qualcuno lo nega”. Ciò che rende la traduzione di questa parola così difficile è il suo diverso significato dipendendo dall’intonazione e dal contesto.

Un uso comune della parola doch è quello nella frase tedesca Der Krieg war doch noch nicht verloren, che si può tradurre con "La guerra non era ancora persa, dopotutto" oppure "La guerra non era ancora stata persa".

In ciascuno di questi casi si potrebbero usare moltissimi altri costrutti grammaticali per tradurre in italiano. La stessa Der Krieg war doch noch nicht verloren con una pronuncia leggermente diversa potrebbe anche essere interpretata come una giustificazione in risposta ad una domanda: "…ma la guerra non era ancora finita (… quindi abbiamo continuato a combattere)".

Un uso che dipende fortemente dall’intonazione e dal contesto potrebbe generare un altro significato: “Allora la guerra davvero non era ancora finita (come hai cercato di convincermi fino ad adesso)”.

Un altro cambiamento nell’intonazione trasforma la frase in una domanda. Der Krieg war doch noch nicht verloren? Si tradurrebbe come “(Intendi dire che) la guerra non era ancora stata persa (a quel tempo)?”

Un altro esempio noto è quello dei verbi ser ed estar sia in spagnolo che in portoghese, entrambi traducibili con “essere” (si veda copula). Tuttavia, è usato solo con essenza o natura, mentre estar è usato con stati o condizioni. A volte questa differenza non è molto utile ai fini del significato dell’intera frase e il traduttore può ignorarla, in altri casi, invece, la si deduce dal contesto.

Quando non si verificano nessuno dei due casi precedenti, solitamente il traduttore si serve di una parafrasi o, più semplicemente, aggiunge delle parole che abbiano quel significato specifico. L’esempio seguente è tratto dal portoghese:

"Não estou bonito, eu sou bonito."

Equivalente allo spagnolo:"No estoy guapo; yo soy guapo."

Traduzione letterale: "Io non sono (apparentemente/solo in questo momento) bello; io sono (essenzialmente/sempre) bello."

Ampliazione: "Non sono bello oggi, sono sempre bello."

Parafrasi: "Non sembro bello, sono bello."

Un esempio di parole della lingua slava meridionale che non hanno un corrispettivo in italiano è doček, una riunione organizzata per l’arrivo di qualcuno (la traduzione più simile potrebbe essere benvenuto; comunque, un doček non è necessariamente positivo).

Lo stesso argomento in dettaglio: Singenionimo.

La terminologia legata ai gradi di parentela (singenionimo) spesso varia tra le diverse lingue. Spesso, i termini sono troppo specifici o troppo vaghi per essere tradotti in un'altra lingua. Alcune regole per la definizione di parentela includono: Paterno o materno. Ad esempio, nelle lingue germaniche, nelle lingue indoarie e in cinese si distingue tra familiari paterni e materni, come la nonna paterna e nonna materna. Allo stesso modo, il figlio del figlio e il figlio della figlia sono anch’essi distinti. Parallelamente, zie e zii sono ulteriormente divisi in molte lingue.

Genere. Laddove in italiano e in inglese esiste una chiara distinzione nelle relazioni di parentela basata sul genere del soggetto, molte lingue non hanno tale distinzione. Ad esempio, in tailandese i fratelli non sono distinti in base al genere, ma in base all’età. Lo stesso accade per gli zii e le zie quando sono di età inferiore ai genitori del soggetto interessato. In tailandese esiste, inoltre, un unico termine per indicare le nipoti e nipoti di zii e nonni. Al contrario, in inglese non esiste la distinzione di genere nel termine cousins, mentre molte altre lingue, tra le quali le lingue romanze, slave e cinesi, la presentano.

Di sangue o per matrimonio. Ad esempio, in inglese la parola uncle può riferirsi al fratello di un genitore, o al marito della sorella di un genitore. Al contrario, invece, in molte lingue come hindi, bengali, ungherese e cinese si fa distinzione.

Fratelli o fratellastri. In arabo, “fratello” è generalmente tradotto come أخ (Akh). Tuttavia, mentre tale termine può descrivere un fratello che ha entrambi o un solo genitore in comune, esiste un termine distinto - شقيق (Shaqīq) – per indicare un fratello di cui entrambi i parenti sono in comune.

Parenti con età simile alla propria o a quella dei genitori. Ad esempio, in bengali, i fratelli maggiori del padre sono chiamati Jethu (জ্যাঠা), mentre i fratelli minori sono chiamati Kaku (কাকু). Le loro mogli sono chiamate Jethi-ma (জেঠি-মা) e Kaki-ma (কাকি-মা) rispettivamente. Un altro problema frequente è la traduzione di fratello o sorella in cinese o giapponese, in quanto presentano termini differenti per indicare se questi siano maggiori o minori.

Parenti acquisiti

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Non esiste in inglese standard un termine plurale neutro (ad esempio co-in-laws”) per l’italiano “consuoceri”, lo yiddish makhatunimu,[12] lo spagnolo consuegros o il portoghese consogros. Se Harry sposa Sally, allora in Yiddish il padre di Harry è il mekhutndel padre di Sally, mentre le madri degli sposi sono makheteynestel’una per l’altra. In rumeno, sono dette cuscri. In bengali, entrambi i padri sono detti beayi, mentre le madri sono dette beyan. Inoltre, in bengali esistono i termini dada/bhai per fratello e jamai-babu/bhagni-pati per cognato.

In spagnolo e portoghese si distingue tra “fratello” e “cognato” (hermano/irmão, cuñado/cunhado); “figlio” e “genero” (hijo/filho, yerno/genro), e lo stesso accade per familiari di genere femminile come "cognata" (cuñada/cunhada) e "nuora" (nuera/nora).

In serbo e bosniaco, esistono termini specifici per le parentele acquisite tramite matrimonio. Ad esempio, una “cognata” può essere chiamata snaha/snaja (moglie del fratello e più generalmente moglie di un membro della famiglia), zaova (sorella del marito), svastika (sorella della moglie) o jetrva (moglie del fratello del marito). Un “cognato” può essere definito zet (marito della sorella e più generalmente marito di un membro della famiglia), djever/dever (fratello del marito), šurak/šurjak (fratello della moglie) o badžanak/pašenog (marito della sorella della moglie). Allo stesso modo, viene utilizzato anche il termine prijatelj (equivalente di makhatunim in Yiddish, che viene inoltre tradotto come “amico”). In bengali, esistono una serie di termini per indicare i parenti acquisiti tramite matrimonio. Ad esempio, Boudi (fratello maggiore della moglie), Shaali (sorella della moglie), Shaala (fratello minore della moglie), Sambandhi (fratello maggiore della moglie/ marito della Shaali), Bhaasur (fratello maggiore del marito), Deor (fratello minore del marito), Nanad (sorella del marito), Jaa (moglie del fratello del marito), ecc.

In russo, esistono, come in yiddish, i termini сват e сватья per indicare i “consuoceri”. Per complicare ulteriormente il lavoro del traduttore, in russo i parenti acquisiti per matrimonio possono decidere quali tra tali termini utilizzare.

Come contrasto alle distinzioni sopra presentate, in inglese americano e britannico il termine brother-in-law si riferisce al “fratello di mia moglie, “il fratello di mio marito” e “il marito della sorella della moglie[13].

Rapporti lavorativi e scolastici

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In giapponese esiste un concetto, amae, che descrive la relazione genitore-bambino e che si suppone sia unico per quella lingua e cultura, in quanto si applica anche al rapporto tra capo e impiegati.[14]

Il giapponese, il cinese e il coreano hanno parole per descrivere compagni di classe e colleghi di diversa età e/o genere. L'esempio più noto è probabilmente la parola giapponese 先輩 (senpai), che si riferisce a un compagno di classe o a un collega più anziano.

A dire il vero, i realia, cioè le parole che denotano oggetti, concetti e fenomeni tipici esclusivamente di una determinata cultura, possono essere facilmente traducibili. In giapponese, ad esempio, il wasabi わさび indica una pianta originaria del Giappone (Eutrema japonicum) che si usa come condimento piccante. È improbabile che le persone in Angola, ad esempio, sappiano esattamente di cosa si tratta. Tuttavia, il modo più facile per tradurre questo termine è utilizzare un prestito linguistico, oppure, in alternativa, si potrebbe usare il nome di una pianta simile. In italiano, infatti, si traduce con wasabi oppure con ravanello giapponese. In cinese la parola wasabi si pronuncia come in giapponese o usando i caratteri hànzì, 山葵 (pinyin: shān kuí). Comunque, viene chiamato 芥末 (jiè mò) o 绿芥 (lǜ jiè) in Cina e Taiwan.

Ulteriore metodo è usare una descrizione invece della singola parola. Ad esempio, lingue come il russo e l’ucraino hanno preso in prestito dal turco le parole Kuraga e Uruk. Sebbene entrambi i frutti siano ora conosciuti nel mondo occidentale, non ci sono ancora dei termini per indicarli in italiano e si fa generalmente riferimento a “albicocca secca” e “albicocca secca con osso”.

Poesie, paronomasia e giochi di parole

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I due ambiti che si avvicinano di più all'intraducibilità totale sono la poesia e la paronomasia; la poesia è difficile da tradurre per la sua forte relazione col suono (ad esempio, le rime) e il ritmo della lingua di partenza; la paronomasia e altri giochi di parole semantici presentano difficoltà per il loro stretto legame con la lingua di partenza. I classici e ben noti esempi sono probabilmente quelli che appaiono nelle traduzioni della Bibbia, ad esempio nella Genesi 2:7, si spiega il motivo per cui Dio abbia assegnato il nome ad Adam, parola connotante la terra (Adama in ebreo), mentre il verso tradotto nelle altre lingue perde la paronomasia iniziale.

In maniera simile, si consideri l’italiano “traduttore, traditore”: in inglese la traduzione letterale “translator, traitor”. La paronomasia scompare nella traduzione, anche se il significato è invariato. In ungaro, invece, si può trovare una soluzione simile all’italiano con a fordítás: ferdítés che si può tradurre all’incirca come “la traduzione è distorsione”

Detto questo, molte procedure di traduzione descritte qui possono essere usate in questi casi. Ad esempio, il traduttore può compensare una paronomasia “intraducibile” aggiungendone un'altra in una parte diversa del testo tradotto.

Il titolo stesso della commedia L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde è una paronomasia (che viene ripresa nelle ultime righe della commedia) che combina il nome proprio Ernest con l’aggettivo qualificativo earnest (che significa onesto). Il titolo francese della commedia tradotta è “L'importance d'être Constant”, che riproduce e ricrea la paronomasia. Tuttavia, al protagonista, Ernest, doveva essere attribuito un altro nome perdendo l’allusione originale. Altre traduzioni in francese sono "De l'importance d'être Fidèle" (fedele) e “Il est important d'être Aimé" (amato), con la stessa idea di paronomasia tra nome e aggettivo. Il linguista ungaro Ádám Nádasdy ha recentemente adottato una soluzione simile con il sottotitolo Szilárdnak kell lenni (lett. “Bisogna essere Szilárd") oltre al titolo classico “Bunbury”, dove “Szilárd” è un nome maschile oltre che un aggettivo che significa “sicuro, risoluto”. Altre lingue, come lo spagnolo, di solito non traducono la paronomasia, come in “La importancia de llamarse Ernesto”, mentre in un'altra traduzione si usava il nome Severo, che significa "severo" o "serio" e quindi vicino all’originale inglese. La traduzione catalana è “La importancia de ser Frank”, usando l’omofonia tra il nome Frank e franc (aggettivo per dire onesto), Nonostante la stessa soluzione potrebbe funzionare anche in spagnolo “La importancia de ser Franco”, porta con sé un evidente rimando politico alla dittatura franchista (1939-1975), al punto che anche questo possibile titolo potrebbe essere interpretato in vena ironica/sarcastica. Il titolo che tradotto letteralmente sarebbe “L’importanza di essere Franco”, per questo non è mai stata usato. Detto ciò, la traduzione tedesca "Ernst sein ist alles" (letteralmente "Essere Ernst è tutto") cambia il nome di poco, infatti -a differenza dell'equivalente inglese- l'aggettivo ernst è scritto esattamente come il nome Ernst e, considerata la posizione iniziale nel titolo, entrambi i significati vengono valorizzati.

La serie francese di fumetti Asterix è rinomata per le paronomasie; per le quali i traduttori inglesi hanno trovato tante soluzioni ingegnose.

Ci sono altri giochi di parole, come lo spoonerismo e il palindromo (ugualmente complicati), che mettono il traduttore di fronte a scelte difficili. Si consideri il palindromo inglese A man, a plan, a canal: Panama. Un traduttore potrebbe decidere di tradurlo letteralmente, ad esempio, in francese Un homme, un projet, un canal: Panama, se fosse usato come didascalia per una foto di Theodore Roosevelt (che concluse l’accordo per la costruzione del Canale di Panama), perdendo così il palindromo. Tuttavia, se un testo volesse fornire un “esempio” di un palindromo, il traduttore potrebbe decidere di sacrificare il contenuto e mantenere la forma, ad esempio sostituendo con Un roc lamina l'animal cornu ("Un masso spazzò via l’animale cornuto").

Douglas Hofstadter analizza i problemi di traduzione dei palindromi dall'inglese in cinese, lingua nella quale i giochi di parole sono teoricamente impossibili, nel suo libro Le Ton beau de Marot[15] dedicato ai problemi di traduzione, con particolare enfasi sulla traduzione di poesia. Un altro esempio fornito da Hofstadter è la traduzione della poesia Jabberwocky di Lewis Carroll, che è ricca di neologismi e parole macedonia, in altre lingue.[16]

Un’interessante battuta irlandese dice che non è possibile tradurre mañana in irlandese, dato che “non esiste una parola che indichi quel grado di urgenza”.

Secondo il linguista Ghil'ad Zuckermann “L’iconicità potrebbe essere una valida ragione per astenersi dal tradurre Hallelujah e Amen nelle varie lingue, come se il suono di tali nozioni religiose elementari avesse a che fare con i referenti stessi o come se, perdendo il suono, si perdesse anche il significato. Si confronti questo con il valore attribuito alle lettere nella cabalistica, ad esempio nel caso della gematria, metodo di interpretazione delle scritture ebraiche tramite lo scambio di parole le cui lettere hanno lo stesso valore numerico se sommate. Un esempio semplice dei calcoli gematrici potrebbe essere il famoso proverbio נכנס יין יצא סוד (nikhnas yayin yåSå sōd), che si potrebbe tradurre come in vino veritas. Il valore gematrico di יין, cioè vino, è 70 (50=; ן 10= י ;10= י) ed è anche il valore gematrico di סוד , cioè segreto, (ס=60; ו=6; ד=4). Quindi all’epoca questa frase, secondo molti ebrei, doveva essere vera.[17]

  1. ^ Aranda, Lucia (2007). Handbook of Spanish-English Translation. Lanham, MD: University Press of America. p. 27. ISBN 9780761837305..
  2. ^ a b Chesterman, A. (2000b), citato da Palumbo, G. (2009), Key Terms in Translation Studies, Continuum International Publishing Group, London, p.148 ISBN 9780761837305..
  3. ^ Baer, Brian James (2015). Translation and the Making of Modern Russian Literature..
  4. ^ Hawley, John Charles (1996). Through a Glass Darkly: Essays in the Religious Imagination. New York: Fordham University Press. p. 284. ISBN 0823216365..
  5. ^ Suzanne Levine e Katie Lateef-Jan, Untranslatability Goes Global, New York, Taylor & Francis, 2018, p. 22, ISBN 9781138744301.
  6. ^ a b Waisman, Sergio Gabriel (2005). Borges and Translation: The Irreverence of the Periphery. Lewisburg: Bucknell University Press. p. 64. ISBN 0838755925..
  7. ^ Derrida, Jacques (1972/1997). Margini della filosofia. Torino: Einaudi. p. 20. ISBN 9788806122386..
  8. ^ Urschel, D. (2008). The Difficult Art of Translation: Poet Laureate Closes Literary Season, Library of Congress Information Bulletin, Vol. 67, No. 6 ISBN 9788806122386..
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Voci correlate

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Collegamenti esterni

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