Ludlul bēl nēmeqi
Ludlul bēl nēmeqi (accadico, [Voglio lodare] il Signore della sapienza) è un poema religioso babilonese in quattro tavole per complessivi 480 versi risalente al II millennio a.C. (periodo cassita) [1] comunemente conosciuto anche come il poema babilonese del "Giusto sofferente".
Il primo testo fu pubblicato nel 1875 da Henry Creswicke Rawlinson (1810-1895) nel IV volume del Cuneiform Inscriptions of Western Asia. L'edizione dell'assiriologo britannico Wilfred George Lambert (1926-2011)[2], per molti anni il riferimento fondamentale, è ora stata rimpiazzata dalla nuova edizione curata da Takayoshi Oshima.[3]
I testi cuneiformi dell'opera sono stati rinvenuti nelle città di: Ninive, Aššur, Babilonia, Sippar, Sultantepe.
Tavola I
[modifica | modifica wikitesto]I primi 30 versi sono perduti. Conosciamo il I rigo Ludlul bēl nēmeqi grazie ai colofoni delle successive tavole. E, come è usanza mesopotamica, il primo rigo riportato nei colofoni ne costituisce il titolo con cui veniva individuato e classificato: Ludlul bēl nēmeqi (lett. [Voglio lodare] il Signore della sapienza) dove ludlul (termine derivato dal verbo dalālu[4]) costituisce la parte fissa delle "preghiere a mano alzata" (šu-íl-lá) recitate in occasione di malattie o disgrazie, per ottenere il soccorso da parte della divinità, il quale, una volta realizzatosi, veniva ripagato con "preghiere di ringraziamento" che consentivano il diffondersi del culto nei suoi confronti; Bēl è l'epiteto, con il significato di "Signore", con cui si invocava il re degli dèi e dio poliade della città di Babilonia, Marduk; nēmequ è il termine in lingua accadica con cui si indica la "conoscenza", la "sapienza, la "saggezza", l'"esperienza".
Segue un inno a Marduk considerato come una tempesta che turbina, ma il cui soffio è buono come la brezza di primo mattino, un dio la cui:
«ša nakbat qātīšu lā inaššû šamāʾū
rittuš rabbat ukaššu mīta»
«sorgente delle sue mani i cieli non (possono) trattenere
(ma) la cui mano delicata, ritarda (la fine del) morente.»
L'orante in questa tavola ricorda le sofferenze e le ingiustizie subite, concludendo:
«id-dan-ni- ili-i14 šá-da-šu i-[mid]»
«il mio dio mi ha abbandonato, ed è scomparso (?)»
L'orante ha perso la sua sicurezza; cattivi presagi lo turbano; la gente parla male di lui; i cortigiani presentano petizioni per infangarne la reputazione; la calunnia e la falsità lo circondano; il suo parlare si fa dunque muto; il suo grido, silenzio (rigo 72: šá-pu-tum šá-gi-ma-ti šá-qum-meš x še[...]). Da dignitario quale era la sua figura, ora è quella di un misero schiavo. Anche i parenti lo hanno abbandonato, lo hanno lasciato solo. L'intera città ora la guarda come un nemico. Il suo amico lo ha abbandonato e il suo compagno trama contro di lui. Colui che lo difende, cade; colui che lo calunnia viene innalzato. Lo hanno sostituito nella sua attività, anche nei riti religiosi è subentrato un altro al suo posto.
Tavola II
[modifica | modifica wikitesto]L'anno è trascorso, e l'orante osserva che «voltandomi indietro (non vedo che) male su di me» (rigo 2: asaḫḫurma lemun lemunma ). La sua disgrazia aumenta, ha invocato il dio che tuttavia non mostra il suo volto (rigo 4: ila al-si-ma ul-id-di-na pa-ni-šú). I divinatori non gli offrono risposte.
Eppure, sostiene l'orante, ciò che gli accade sarebbe ben meritato da colui che non cura il dio, che disprezza i riti, che è negligente nelle feste religiose, ma l'orante ricorda di aver sempre pregato e fatto offerte, di aver seguito con cura le processioni alla dea, le preghiere del re accompagnate dalla musica erano per lui delizia. Aveva inoltre insegnato alla gente a onorare il dio e a comprendere il valore del nome della dea.
Allora, medita l'orante:
«ayyu ṭēm ilī qirib šamê ilammad»
«Chi mai (può) sapere il pensiero degli dèi in cielo?»
Infatti,
«ša ina amšat ibluṭu imūt uddiš»
«Chi era vivo iersera, oggi è (già) morto»
La condizione degli uomini è dunque fragile e incostante,
«kī pitê u katāmi ṭēnšina šitni
immuṣāma immâ šalamtiš
išebbâma išannâ ilšin
ina ṭâbi itammâ ili šamāˀī
ūtaššašāma idabbubā arād irkalla»
«La loro condizione si muta come l'aprire e chiudere (il passo)
Se soffrono la fame diventano (come) cadaveri;
(una volta) saziati rivaleggiano con i loro dèi.
Nella prosperità parlano di scalare i cieli;
nell'avversità si lamentano di (star) scendendo negli inferi.»
Ma i mali dell'orante non si fermano a quelli che attengono alla sua onorabilità o ai suoi rapporti sociali e alla fortuna negli affari, ora riguardano anche le sofferenze fisiche e le malattie: tosse, febbre, impotenza, infezioni, paralisi acuite dalla fame procurata dalla miseria tormentano l'orante. La sua casa è ora una prigione, il corpo è una piaga, trascorre le notti nella sua sporcizia. Il dio non viene in suo aiuto. La morte è prossima e il nemico ne gode.
Tavola III
[modifica | modifica wikitesto]La mano divina pesa sull'orante, nella malattia vaneggia e geme. In un sogno gli appare un giovane di splendide fattezze che impugna un ramo di tamarisco per le purificazioni. Questo giovane comunica all'orante che Laluralimma di Nippur lo ha inviato per purificarlo: e con l'acqua lo splendido giovane lo purifica. In un altro sogno un giovane gli appare inviato da Marduk. Qui, al verso 43 della III Tavola appare il possibile nome dell'orante a cui Marduk ha inviato il giovane luminoso: Šubši-mešrê-Šakkan. A Šubši-mešrê-Šakkan il giovane inviato da Marduk in sogno cura le membra e lo purifica.
Tavola IV
[modifica | modifica wikitesto]Marduk ha ascoltato i lamenti e le preghiere dell'orante:
«[be-l]í ú ṣa-bít-an-ni
[be-l]í ú-pat-t[in]-an-ni
[be-l]í ú-ba-liṭ-an-ni
[ina ḫas-t]i e-kim-an-ni
[ina ka-ra-]še-e id ⌈kan⌉ an-ni»
«Il [Signor]e mi afferrò
Il [Signor]e mi (ri)mise in piedi;
il [Signor]e mi ha fatto (ri)vivere.
Mi ha tratto [dal pozzo]
mi ha chiamato fuori dalla distruzione.»
Marduk ha ascoltato i lamenti e le preghiere dell'orante:
Ora l'orante rende grazie al dio che lo ha fatto tornare in vita, lui che era sceso nella fossa. L'orante prega Marduk e la sua paredra Ṣarpānītu offrendo loro incenso odoroso, sacrifici e libagioni.
Il Ludlul bēl nēmeqi conclude così con l'ultima riga, la n.100 della IV Tavola:
«[feci scorrere d'olio] puro, panna e grano scelto»
Note
[modifica | modifica wikitesto]- ^ Tutte le fonti a noi giunte risalgono tuttavia al I millennio a.C.
- ^ in Babylonian Wisdom Literature, New York, Oxford University Press, 1960, pp. 21-62.
- ^ Babylonian Poems of Pious Sufferers: Ludlul Bēl Nēmeqi and the Babylonian Theodicy, Tübingen: Mohr Siebeck, 2014 (recensione di Scott B. Noegel Archiviato il 15 dicembre 2018 in Internet Archive.)
- ^ Cfr. anche Chicago Assyrian Dictionary, vol. 3 p.47.
Bibliografia
[modifica | modifica wikitesto]- La traduzione integrale in italiano del Ludlul bēl nēmeqi è in:
Giorgio R. Castellino, Testi sumerici e accadici, Torino, UTET, 1977, pp. 478 e sgg.
- La traslitterazione dal testo cuneiforme e la sua traduzione in lingua inglese è in:
Wilfred G. Lambert, Babylonian Wisdom Literature, Oxford, Oxford University Press, 1966, pp. 21 e sgg.
- Un'edizione, sempre in lingua inglese, più recente e aggiornata con l'aggiunta di nuovi frammenti del testo cuneiforme, della sua traslitterazione e traduzione è in:
Amar Annus e Alan Lenzi, Ludlul bēl nēmeqi. The Standard Babylonian Poem of the Righteous Sufferer, Neo-Assyrian Text Corpus Project, State archives of Assyria cuneiform texts 7. Helsinki 2010.
Voci correlate
[modifica | modifica wikitesto]Collegamenti esterni
[modifica | modifica wikitesto]- Poem of the Righteous Sufferer, su gatewaystobabylon.com.
- The Poem of the Righteous Sufferer (Ludlul bēl nēmeqi), Tablet II, entire tablet, read by Karl Hecker, su soas.ac.uk.