Storia di Cosa nostra

Voce principale: Cosa nostra.

La storia di Cosa nostra è l'insieme degli eventi storici che hanno determinato la nascita e lo sviluppo di quest'organizzazione criminale di stampo mafioso radicata in Sicilia e considerata una delle più potenti in Italia.

Dalle origini al Regno delle Due Sicilie

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Dibattito sulle origini tra leggenda e realtà storica

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Lo stesso argomento in dettaglio: Beati Paoli, Garduna e Mafia in Italia § Storia.
Illustrazione raffigurante alcuni dei Beati Paoli.

Le reali origini del fenomeno mafioso non sono note con precisione e perciò si è fatto spesso ricorso ad ipotesi prive di fondamento storico, come quella che vorrebbe la mafia originata dall'antica setta dei Beati Paoli, che sarebbe stata attiva a Palermo almeno dal XII secolo in poi: gli storici la ritengono però una leggenda frutto della fantasia popolare che iniziò a circolare nel XVIII secolo ma di cui non si hanno prove documentali attendibili circa la sua reale esistenza.[1] Fu in realtà il successo del romanzo d'appendice I Beati Paoli (1910) dello scrittore Luigi Natoli che contribuì ad accreditare (anche presso gli stessi mafiosi) la convinzione che Cosa nostra discendesse dalla leggendaria setta.[2]

Infatti quello dei Beati Paoli è uno dei tanti miti fondativi provenienti da fonti interne alla mafia stessa, che spesso narrarono storie di provenienza leggendaria e in contraddizione tra loro, derivanti dalla precisa volontà di voler nobilitare e mitizzare l'operato criminale di un'associazione segreta di lungo corso qual è Cosa nostra: alcuni affiliati (ovviamente dopo la loro collaborazione con la giustizia) affermarono addirittura che il mitico fondatore di Cosa nostra sarebbe l'apostolo Pietro e fornirono persino un presunto anno di fondazione (ossia il 1630), specificando che in origine sorse come braccio armato della massoneria (si tratta chiaramente di un anacronismo storico perché le logge massoniche iniziarono a comparire in Europa soltanto a partire dal XVIII secolo)[3]. Un originale mito fondativo (anch'esso storicamente mirabolante) è stato proposto da un altro collaboratore di giustizia, il medico-mafioso (e massone) Gioacchino Pennino, il quale, nel suo libro Il Vescovo di Cosa nostra (pubblicato da Sovera nel 2006), affermò che a creare la mafia nel XVII secolo per difendere i siciliani dall'oppressione spagnola sarebbero stati due suoi antenati, i pittori e scultori Giacomo e Filippo Pennino, che discenderebbero a loro volta dagli eretici francesi Catari, i quali nel XIII secolo trovarono riparo dalle persecuzioni a Palermo e a Napoli, sotto la protezione dell'imperatore Federico II di Svevia.[4][5]

Dal punto di vista prettamente storico, sebbene tutti concordino che la mafia cominci ad apparire nei documenti ufficiali soltanto negli anni successivi all'Unità d'Italia (1861), gli storici che se ne sono occupati hanno cercato di risalire alla sua genesi storica con svariate ipotesi.[6][7] Al contrario dei miti mafiosi che vorrebbero Cosa nostra nata come una sorta di società di mutuo soccorso e di giustizia privata contro le angherie dei potenti (in linea con la figura romantica del bandito-eroe che ripara le ingiustizie sociali, molto in voga presso la grande letteratura europea per tutto il XIX secolo e che costituisce il leitmotiv del popolare romanzo di Luigi Natoli)[8][1], il dibattito storico concorda che essa nacque e si sviluppò come parte integrante delle classi dirigenti.[6][9][10] Alcuni studiosi (come Michele Pantaleone) ritennero che l'origine del fenomeno mafioso potesse essere molto antica, partendo dal presupposto che, essendo la mafia nata dalle strutture sociali del feudo, esso (con tutto ciò che ne consegue) esiste in Sicilia fin dall'epoca normanna, quando i nuovi conquistatori instaurarono sull'isola un regime feudale di tipo francese o, addirittura, si può risalire ancora più indietro ai Cartaginesi e ai Romani, che misero in pratica una politica schiavista di sfruttamento agricolo dei latifondi siciliani.[9] Di opinione simile fu lo storico Giuseppe Carlo Marino, il quale, concordando con l'analisi del meridionalista Pasquale Villari, affermò che la mafia si formò «per generazione spontanea» e fu utilizzata come mezzo di salvaguardia dei privilegi del baronaggio siciliano, cui i vari conquistatori che si succedettero al governo dell'isola (dai Normanni in poi) delegarono il potere.[6] La convinzione che la mafia rappresenti il «filo conduttore» della storia della Sicilia è stata espressa anche dallo storico Denis Mack Smith[11].

Secondo un'altra ipotesi proposta dallo storico Virgilio Titone (ripresa anche dal giornalista e studioso Indro Montanelli)[12], la mafia affonderebbe le sue origini intorno all'anno 1250, quando, alla morte dell'imperatore Federico II di Svevia, il suo esercito composto perlopiù da mercenari saraceni si sfaldò ed essi si dispersero nell'interno dell'isola, rimanendo però sempre in contatto con funzioni di autodifesa.[13]

Ulteriori teorie storiografiche farebbero risalire le origini della mafia al periodo della dominazione spagnola: se nel XVI secolo dappertutto in Europa le monarchie assolute erano riuscite a ridimensionare il potere della nobiltà, in Sicilia avvenne il contrario ed anzi si accrebbero i privilegi baronali a causa della corruzione e della debolezza dei governanti spagnoli, i quali si appoggiarono alla locale aristocrazia terriera per preservare l'ordine pubblico ma, in cambio, assicurarono l'impunità per soprusi, delitti e violenze commessi dai baroni e dai loro servi prezzolati[14]. In particolare, lo storico Nicola Tranfaglia ipotizzò che la nascita della mafia sia da ricondurre al «modello spagnolo» di Stato assoluto, caratterizzato dalla tendenza ad «utilizzare la delinquenza d'accordo con l'aristocrazia fondiaria, per mantenere l'ordine nelle campagne», sull'esempio dei bravi descritti dal Manzoni nel celebre romanzo I promessi sposi.[15] Gli storici Salvatore Lupo, John Dickie e lo studioso Isaia Sales affermarono invece che la tesi del «modello spagnolo» sarebbe smentita dal fatto che in Spagna o nei territori ad essa sottoposti nel XVI secolo (il Ducato di Milano, i Paesi Bassi o le colonie sudamericane) non sia mai formata un'organizzazione mafiosa paragonabile a Cosa nostra e che le forme di criminalità sviluppatesi in Sicilia durante la dominazione spagnola sarebbero analoghe a quelle che nello stesso periodo storico emersero in altre parti d'Europa.[10][16][17]

Connubio nobiltà-Inquisizione in Sicilia: una "proto-mafia"?

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Lo stesso argomento in dettaglio: Inquisizione in Sicilia.
Palazzo Chiaramonte-Steri a Palermo, sede dell'Inquisizione in Sicilia.

Durante il dominio spagnolo in Sicilia, la Santa Inquisizione (che ufficialmente doveva dare la caccia agli eretici) sottraeva i suoi familiari (ossia i collaboratori, spie ed informatori alle sue dipendenze) alla giustizia statale, assicurandogli la totale impunità per qualsiasi crimine.[14][18][19] Si stima ufficialmente che nel 1577 vi fossero in Sicilia circa 30.000 familiari dell'Inquisizione e nel numero andavano compresi i loro parenti, domestici e commensali, che godevano anch'essi dell'esenzione dalla giurisdizione civile e penale.[14]

Nel 1565 il vicerè spagnolo di Sicilia Garcia Álvarez de Toledo descrisse Palermo come oppressa da «molti spataccini e bravacci che vivevano imperiosamente, inquetando e componendo» (sono infatti documentati casi di estorsione ai danni dei mercanti della Bucceria, odierno mercato della Vucciria)[20] sotto la protezione di «signori e uomini potenti», protetti a loro volta dall'Inquisizione (la quale a sua volta godeva dell'appoggio del governo di Madrid), che, attraverso di loro, poteva far rispettare i suoi ordini anche negli angoli più remoti dell'isola[14]. Lo storico Orazio Cancila sostenne che il connubio baronaggio siciliano-Inquisizione fosse «una delle più grosse organizzazioni di tipo mafioso che mai abbiano operato nell'isola sino ai nostri giorni»[14].

In una lettera del 3 novembre 1577, il nuovo viceré Marcantonio Colonna scriveva che i familiari dell’Inquisizione erano «todos los ricos, nobles, y los ricos delinquentes» («tutti i ricchi, i nobili e i ricchi delinquenti»)[19]. Il vicerè Colonna cercò invano di limitare lo strapotere dell'Inquisizione e di sradicare la delinquenza dall'isola[21]: infatti, nonostante «signori, cavalieri e dame» avessero cercato di intercedere per la sua salvezza, nel 1579 il vicerè fece impiccare Girolamo Colloca, detto il «Re della Bucceria» e considerato il «capo di tutti i bravacci» palermitani, che era stato grande amico del precedente vicerè Juan de la Cerda duca di Medinaceli;[14][20] fece inoltre estradare dalla Toscana il feroce bandito Rizzo di Saponara, che però fu avvelenato prima di arrivare a destinazione affinché non potesse accusare i suoi potenti protettori.[14][20][21] Ormai avversato dalla nobiltà siciliana, il vicerè Colonna fu richiamato in patria dal re Filippo II di Spagna ma morì alla fine del viaggio, probabilmente avvelenato anche lui.[14][21] Finalmente nel 1591 il sovrano Filippo II vietò ai nobili di affiliarsi all’Inquisizione e dispose che i familiari accusati di omicidio non potessero avvalersi dell'immunità.[14][19] Tuttavia i baroni siciliani e i loro sgherri riuscirono ad aggirare tale divieto fino al 1782, quando la Santa Inquisizione in Sicilia fu soppressa per volere del vicerè Domenico Caracciolo.[14]

In base a studi più recenti, lo storico Salvatore Lupo ha affermato che al connubio baronaggio-Inquisisizione non si possa applicare l'etichetta di «mafia» poichè nei secoli XVI-XVII «i soggetti erano diseguali e facevano riferimento a giurisdizioni diversificate a seconda della qualità delle persone e dei gruppi, [quindi] erano fisiologiche quelle stesse relazioni [tra potere socio-politico e criminalità, n.d.r.] che in età contemporanea appaiono patologiche, scandalose a tal punto da richiedere una specifica parola che ne definisca il carattere illecito»[10].

La nascita della "proto-mafia" nella realtà della Sicilia feudale

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Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della Sicilia borbonica.

Il retroterra socio-economico della "proto-mafia"

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Lo stesso argomento in dettaglio: Gabellotto.

La Sicilia fu l'ultimo Paese d'Europa ad abolire i privilegi feudali con la Costituzione del 1812, concessa da re Ferdinando IV di Borbone ai baroni siciliani su pressione inglese.[9] Infatti il 90% della terra nella parte occidentale e centrale dell'isola (province di Palermo, Trapani, Girgenti e Caltanissetta) risultava ancora in mani feudali, al contrario di quello che avvenne nella Sicilia orientale (in particolare Messina, Catania e Siracusa), dove gli organi amministrativi locali cercarono di acquisire un'autonomia di governo per favorire la tutela dei loro commerci.[22]

Di fatto la situazione non cambiò perché la Costituzione del 1812 trasformò i feudi in proprietà "allodiali", cioè in proprietà private presso l'antico possessore, e ne consentì perciò la vendita[22]. Come conseguenza diretta, questa riforma favorì l'alienazione delle terre ad un nuovo ceto medio emergente, i cosiddetti gabellotti, che in precedenza amministravano in locazione i feudi della nobiltà siciliana. Essi si comportarono come i vecchi padroni, di cui imitarono l'attitudine parassitaria, che si concretizzava nel praticare un'agricoltura estensiva e nello sfruttamento dei braccianti (da cui pretendevano esosi pagamenti in natura) e dei mezzadri (da cui riscuotevano gli affitti anche con la forza)[9]. I contadini inferociti dalla fame e ribelli alla loro miseria andavano ad ingrossare le fila dei briganti e dei scassapagghiari (ladri di poco conto), che terrorizzavano le contrade con frequenti abigeati, furti di derrate e sequestri di persona, favoriti dalla totale mancanza di strade ed infrastrutture[9]. Contro di loro i proprietari utilizzarono le vecchie guardie del feudo, ossia "i bravi", cioè quei loro servi bravi e addestrati nell'uso delle armi (spesso briganti che facevano carriera con la violenza), dalle cui fila provenivano i campieri, ossia le guardie armate a cavallo, che erano organizzati in squadre agli ordini di un soprastante, che faceva le veci del gabellotto quando questi era assente[23]. Spesso i soprastanti e i camperi riuscivano a scendere a patti con i banditi per la restituzione della merce rubata e finivano per fornirgli rifugio e protezione, magari per utilizzarli per razzie e atti di terrorismo in altre zone e magari specificamente contro quel feudo o quel proprietario, in maniera che da quella aggressione il mandante occulto avesse i suoi vantaggi.[9][22] Già nel 1773, Patrick Brydone, viaggiatore scozzese del Grand Tour, raccontò che, dovendo attraversare le campagne interne della Sicilia infestate dai briganti, un nobile locale lo affidò ad «un fidato corpo di guardia» composto da «arditi e incalliti furfanti» alle sue dipendenze appartenenti ad «una onorabile confraternita» non meglio definita che «si ritiene impegnata al servizio della legge e dell'ordine, è circondata dal prestigio che impone l'uso della forza, applica le sue sanzioni con brutalità e ferocia, senza perder tempo a fare ricorso ai tribunali».[24]

Per ovviare a questa situazione, la Costituzione del 1812 prevedeva infatti l'istituzione delle "Compagnie d'armi", corpi paramilitari che avevano il compito di mantenere l'ordine pubblico nelle campagne, in cui confluirono i soprastanti e i loro campieri. Abolite prima nel 1837 e poi nuovamente nel 1860, le Compagnie d'armi rinacquero sotto i nomi di “militi a cavallo” o di “guardie di pubblica sicurezza a cavallo” per essere definitivamente soppresse nel 1891[9][22][25].

La miserabile condizione dei latifondi delle zone interne della Sicilia è descritta dall'economista Lodovico Bianchini, inviato in Sicilia nel 1837 dal re Ferdinando II di Borbone per affiancare il luogotenente generale Onorato Caetani duca di Laurenzana[22]:

«[...] gli uomini di armi [le Compagnie d'armi, rectius], la più parte senza disciplina e di scadente morale, in diversi luoghi partecipavano ai furti che si commettevano ed inoltre non impedivano, anzi facevano quelle turpi convenzioni sotto nome di componende, sinonimo di ricatto, che annualmente facevansi fra famigerati ladri e i proprietari per le quali costoro corrispondevano a quelli una data somma di denaro per evitare d'essere violentamente derubati. [I proprietari n.d.r.] che non prestavasi a siffatte convenzioni, che i suoi poderi sarebbero distrutti o incendiati ed ucciso il bestiame, senza che la giustizia facesse il suo corso ed i rei fossero menomameate preseguitati o puniti. Quindi i proprietari nel difetto delle istituzioni e nella impotenza delle leggi, e della potestà, paventando delle vendette sia dei ladri, sia degli stessi uomini d'arme, non osavano muovere doglianze.»

In alcune zone circoscritte delle province di Caltanissetta e Girgenti (odierna Agrigento), il sistema del latifondo si integrava con quello delle miniere di zolfo (zolfare o pirrere): a partire dal 1815, grazie all'apporto determinante dei capitali inglesi, il commercio dello zolfo siciliano iniziò ad assumere grande rilievo internazionale (a quei tempi, infatti, lo zolfo era una risorsa fondamentale per la fabbricazione di polvere da sparo e di acido solforico, largamente impiegato nella nascente industria chimica)[26]. La gestione delle zolfare rispondeva agli stessi criteri di sfruttamento della grande proprietà agraria: l'antica nobiltà feudale le dava in locazione insieme al latifondo a personaggi assai più intraprendenti (i cosiddetti "gabellotti di zolfara"), che miravano a conseguire il maggior guadagno possibile con la minor spesa.[6][27] Perciò la condizione degli zolfatari (lavoratori della zolfara) non era molto dissimile da quella dei contadini del latifondo in quanto, come questi ultimi, essi erano largamente sfruttati dal gabellotto: i pirriatura (picconieri), coloro che estraevano materialmente lo zolfo dalle viscere della terra, erano organizzati in squadre di tre o quattro operai ed erano pagati a cottimo o in natura; a loro volta, sfruttavano al massimo i garzoni alle loro dipendenze, i cosiddetti carusi, bambini dagli otto ai quindici anni venduti dalla loro famiglia al picconiere alla stessa stregua degli antichi schiavi.[6][28] I carusi si accollavano un lavoro massacrante, consistente nel portare in superficie lungo ripide gallerie le ceste cariche di zolfo estratto, che spesso li portava a morte prematura a causa delle deformazioni fisiche o delle esalazioni tossiche dei gas sprigionati dallo zolfo, i quali provocavano anche terribili esplosioni se a contatto con qualche fiamma.[6][27][28] Oltre al duro lavoro, i carusi erano costretti a subire ogni tipo di angheria o abuso fisico da parte dei picconieri[28]. Gabellotti e capi-picconieri erano in grado di costituire cartelli commerciali per costringere i rivali ad uscire dal mercato, anche utilizzando metodi violenti[28].

Analoga situazione si ripeteva nelle campagne intorno a Palermo e nelle sue borgate suburbane, dove il latifondo brullo dell'interno lasciava spazio al jardinu (giardino coltivato ad agrumi, olivi e viti), in cui, oltre ai gabellotti (che qui presero il nome di giardinieri), la facevano da padroni i guardiani, ossia coloro che esercitavano la guardianìa (sorveglianza armata), l'equivalente delle mansioni dei campieri nel feudo[10][28]. Ad essi si affiancavano i fontanieri, che controllavano i pozzi per la distribuzione dell'acqua irrigua, e gli speculanti, cioè i sensali, gli intermediari tra i produttori e i grossisti d'agrumi. Perciò, da questa posizione di vantaggio, essi potevano benissimo influenzare la produzione e il rendimento di un agrumeto, tanto da imporre ai proprietari terrieri le proprie condizioni, come l'estorsione di somme di denaro o assunzioni di uomini di propria fiducia.[28][8] Secondo alcuni calcoli dell'epoca, nella seconda metà dell'Ottocento la produzione agrumaria nell'hinterland palermitano aveva toccato il suo apice a causa del boom delle esportazioni e i jardini della Conca d'oro rappresentavano i terreni più redditizi d'Europa.[10][28]

È in questo ambiente sociale con le sue classi (in particolare i «facinorosi della classe media» come li definirà più tardi Leopoldo Franchetti) che la "proto-mafia" trovò il suo vivaio e i suoi quadri dirigenti.[10]

Il rapporto tra sette e cospirazioni risorgimentali

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Palermo in rivolta nel 1848.

Il 3 agosto 1838 il procuratore generale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, presentò al ministro di Grazia e Giustizia del Regno delle Due Sicilie, Nicola Parisio, un dettagliato rapporto sullo stato economico e politico della Sicilia[22][29]:

«Non vi è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a tirar profitto del suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle fratellanze specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, lì un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un funzionario, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei. Come accadono furti, escono dei mediatori ad offrire transazioni pel recuperamento degli oggetti rubati. [...] Non è possibile indurre le guardie cittadine a perlustrare le strade; nè di trovare testimoni pei reati commessi in pieno giorno. Al centro di tale stato di dissoluzione evvi una capitale [Palermo, n.d.r.] col suo lusso e le sue pretenzioni feudali in mezzo al secolo XIX, città nella quale vivono quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal lusso e dal capriccio dei grandi. In questo umbelico della Sicilia si vendono gli uffici pubblici, si corrompe la giustizia, si fomenta l’ignoranza.»

Il rapporto metteva chiaramente in luce il pullulare di cosche, sette, nasse e fratellanze di varia natura, frutto della capillare diffusione di idee carbonare e mazziniane che alimentarono in Sicilia i moti del 1820-21 e del 1848 (e successivamente un tentativo di rivolta nel 1856, stroncato sul nascere dai borbonici, guidato da Francesco Bentivegna e Salvatore Spinuzza, nonché la ribellione che accompagnò la spedizione dei Mille nel 1860), in cui furono coinvolti delinquenti e popolani di varia risma provenienti dal contado palermitano (i celebri picciotti) e raggruppati in squadre (in gergo siciliano bunache, dal nome della tipica giacca portata dai contadini)[23], sobillate dai baroni e dai gabellotti[30]; uno dei capi-squadra più famigerati fu Salvatore "Turi" Miceli, giardiniere di Monreale, che partecipò alle rivoluzioni siciliane del 1848 e del 1860[10][17]. Tutti i moti si svolsero seguendo una tattica ben collaudata nelle precedenti insurrezioni, cioè le squadre delle borgate suburbane irrompevano a Palermo per spalleggiare nella rivolta quelle cittadine: se nelle bunache prevalevano gli elementi di estrazione contadina e banditesca, le squadre cittadine avevano una base sociale più larga con la predominanza dei ceti artigiani, eredi delle Maestranze (cioè le corporazioni di arti e mestieri) che nel corso del XVIII secolo avevano assunto le funzioni di corpo di gendarmeria su delega regia ma erano state del tutto abolite perché avevano avuto un ruolo da protagoniste nei moti del 1820-21[8]. A queste si aggiungevano le cosiddette controsquadre (come le ha definite lo storico Salvatore F. Romano) assoldate dagli aristocratici più abbienti a difesa di sé stessi e dei loro beni minacciati dalle continue rivolte di popolo[10][8]. Perciò, scrive la storica Amelia Crisantino, «diventa spiegabile l'esistenza di molte mafie, alcune prevalentemente criminali e altre soprattutto politiche, accomunate dalla capacità di agire in vista di un fine»[31]. Studiosi come Salvatore Lupo hanno identificato questi gruppi come "proto-mafia"[32]. Lupo stesso descrive due dei principali leaders rivoluzionari siciliani, ossia il barone Francesco Bentivegna e il garibaldino Giovanni Corrao, come in combutta con elementi "proto-mafiosi"[33]. Secondo lo storico John Dickie (autore di diversi saggi sulla storia della mafia), la nascita di Cosa nostra fu «il risultato di quell’insieme di cospirazionismo, violenza rivoluzionaria e società segrete para-massoniche che caratterizzò il Risorgimento nel Regno delle Due Sicilie»[34] ed anche il sociologo e criminologo tedesco Henner Hess (altro studioso del fenomeno mafioso) scrisse che, durante i moti risorgimentali, «( [...] ) fosse senz’altro possibile che nelle carceri vi fossero congiure con riti simili a quelli napoletani [il riferimento è ai riti iniziatici della camorra ottocentesca n.d.r.], o brutte copie di quelli massoni a carattere politico-rivoluzionario»[35]

La risposta di Ferdinando II di Borbone alle istanze autonomiste dei siciliani fu dispotica e crudele: oltre alla nomina di uomini di assoluta fedeltà al regime borbonico per occupare i posti-chiave dell'amministrazione isolana (ad esempio i già citati Calà Ulloa e Bianchini)[36], la repressione poliziesca fu invece affidata a Salvatore Maniscalco, intransigente direttore del dipartimento di Polizia in Sicilia dal 1851 al 1860, il quale ebbe ai suoi ordini un corpo di polizia molto violento e odiato, che non usava mezze misure e che aveva rapporti "diretti" con la malavita, come dimostrato dall'arruolamento di "malandrini", in quanto essi - cosa non sconosciuta alla Francia di Luigi Filippo (vedi il caso di Eugène-François Vidocq) e che continuerà anche dopo l'Unità d'Italia – erano considerati i più adatti per arrestare i malandrini ufficiali.[37] Fu arruolato anche il famigerato "Turi" Miceli, che perciò ottenne l'amnistia per la sua partecipazione alla rivolta del 1848[10][17]. Il coinvolgimento della criminalità nelle trame rivoluzionarie è dimostrato dal tentativo di omicidio ai danni di Maniscalco, accoltellato da un picciotto all'uscita dalla cattedrale di Palermo il 27 ottobre 1859.[23][37]

Dopo l'Unità d'Italia

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La comparsa della mafia

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L'attore palermitano Giuseppe Rizzotto veste i panni di scena del "mafioso" durante la rappresentazione teatrale de I mafiusi de la Vicaria (1863).

Nel 1863 fece il suo debutto I mafiusi de la Vicaria, un'opera teatrale in lingua siciliana scritta dal commediografo Giuseppe Rizzotto in collaborazione con il maestro elementare Gaspare Mosca. La commedia, che descrive la vita e le abitudini di un gruppo di malandrini (detti in gergo mafiusi appunto) rinchiusi nelle Grandi Prigioni della Vicaria di Palermo durante gli ultimi anni del regime borbonico[38], ebbe grande successo in tutta Italia e venne tradotta in italianonapoletano e meneghino, facendo sì che il termine mafia intesa come «associazione a delinquere, con gerarchie e con specifiche usanze, tra le quali veri e propri riti di iniziazione»[22] si diffondesse su tutto il territorio nazionale[39]. La commedia di Rizzotto e Mosca, nonostante lo avesse individuato e ne avesse coniato il nome, non colse la vera portata del fenomeno mafioso siciliano, limitandosi ad una visione di esso popolaresca e quasi folkloristica[7]. Malgrado le evidenti ingenuità, il finale dell'opera teatrale risulta significativo se letto alla luce del periodo storico in cui è ambientato (cioè gli anni a cavallo dell'Unità d'Italia): il protagonista mafiusu viene "redento" dal suo passato criminale grazie ad un distinto personaggio che ha conosciuto dietro le sbarre (che nella commedia rimane senza nome ma viene generalmente identificato in Francesco Crispi, maggiore esponente della sinistra repubblicano-garibaldina nonché futuro primo ministro, ritenuto da più parti un vero e proprio capo-mafia)[8][40][41], il quale gli offre l'iscrizione ad una società operaia di mutuo soccorso per dargli un avvenire onesto.[42] A tal proposito rileva lo storico Salvatore F. Romano che «[la vicenda finale de I mafiusi de la Vicaria, n.d.r.] rispondeva, assai più di quanto non si possa pensare, alla prassi di assimilazione e di reciproca influenza che i gruppi politici, e specialmente quello che si raggruppava intorno a Crispi, esercitavano sui gruppi inferiori della mafia popolare»[8].

Al di là dei punti di contatto tra realtà e finzione letteraria, lo sviluppo della mafia come organizzazione seguì le fasi dell'annessione della Sicilia al neonato Regno d'Italia (1861), il quale rappresentò un evento traumatico, soprattutto dal punto di vista dell'ordine pubblico, come evidenziato dal diplomatico Diomede Pantaleoni, incaricato dal Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli e dal ministro dell’Interno Marco Minghetti di una missione conoscitiva nel Mezzogiorno, il quale scrisse[7][22]:

«[...] l'assassinio o il tentativo di quello è comune e direi quasi cosa di tutti i di, e meglio anco nelle grandi che nelle piccole città. L’assassinio è quasi ognora o personale vendetta, la quale importa un eguale ritorno di vendetta per la parte offesa, o tale che di assassinio in assassinio si funestano le città e le contrade, ed in Palermo si registravano nel diario ufficiale 29 attentati in 27 giorni nel mese di luglio, né la giustizia ripara a ciò, imperocché il terrore della pubblica vendetta è tale che non si trovano testimoni a deporre, sindaci o questori di pubblica sicurezza per decretare gli arresti, e, quando pure abbiano luogo per l’azione di benemeriti carabinieri reali, non giudici per procedere e condannare. Non si stimi esagerazione quanto io espongo, e se meno acuti se ne sentono i lamenti di quelle popolazioni, gli è che esse stesse preferiscono la personale vendetta all’azione della legge.»

Infatti si registrarono nella sola Palermo preoccupanti atti di vero e proprio terrorismo politico: nel 1861 vi fu il tentato omicidio ai danni di Domenico Peranni (futuro sindaco della città) e l'omicidio del consigliere di Corte d'appello Giovanbattista Guccione, entrambi esponenti della sinistra mazziniana-garibaldina[7][43]; nel 1862 fu scoperta la congiura dei "pugnalatori" ai danni di tredici ignari passanti, forse capeggiata dal senatore Romualdo Trigona principe di Sant'Elia[28][44]; nel 1863 fu assassinato l'ex generale garibaldino Giovanni Corrao, capo dell'ala estremista del Partito d'Azione mazziniano[45] (per lo storico Giuseppe Carlo Marino si trattò del «primo delitto di Stato o il primo delitto "eccellente" di mafia nella storia dell'Italia unita»)[6], e vi fu il fallito agguato nei confronti del barone Nicolò Turrisi Colonna (esponente della Sinistra storica ed anche lui futuro sindaco di Palermo)[46][47]; nel 1865 due leaders della frangia moderata del Partito d'Azione, Francesco Perroni Paladini e Carlo Trasselli, furono oggetto di tentativi falliti di omicidio (Trasselli verrà poi ucciso nel 1869)[43][45]. Oltre a Palermo, anche a Castellammare del Golfo, Santa Margherita Belice e Racalmuto si verificarono lotte tra fazioni politiche che degenerarono in fatti di sangue.[48]

Ai delitti politici si sommava il brigantaggio comune, che assunse i toni di una forma di protesta all'introduzione del servizio di leva obbligatorio, che privava per cinque anni le famiglie contadine di braccia per l'agricoltura. Infatti i renitenti alla leva e i disertori che si diedero alla macchia (circa 26.000 nel 1863)[10] divennero un vero e proprio esercito, ingrossato anche dalla delinquenza comune e da ex volontari del disciolto esercito garibaldino, che mise a ferro e fuoco le campagne siciliane dell'interno con furti e abigeati, spesso con la complicità dei gabellotti mafiosi, che a loro volta li assunsero come campieri e soprastanti per catturare altri briganti[48][49]. A questo si aggiungeva il malcontento e la sfiducia delle classi meno abbienti per la mancata riforma promessa da Garibaldi riguardante il superamento del secolare sistema socio-economico del latifondo, che non fu minimamente intaccato, anzi, scrisse Leonardo Sciascia «le aspirazioni della nuova classe dominante dell'economia agricola siciliana, i gabellotti e i loro collaboratori cittadini si riducevano in fondo ad una cosa sola: che la Sicilia divenisse una colonia agricola del Nord commerciale e industriale. Il che avvenne e ovviamente non dispiacque alla classe commerciale e industriale del Nord e da ciò, con una più accentuata complicità dello stato italiano nell'affermazione e nel consolidamento della classe borghese mafiosa siciliana»[30]. I ceti più bassi furono inoltre penalizzati dall'introduzione di nuove tasse e balzelli particolarmente vessatori (l'odiosa tassa sul macinato ed imposte sul sale e i tabacchi, che divennero monopolio statale) e dal varo della legge che prevedeva l'esproprio e la vendita dei beni ecclesiastici, che nel passato avevano dato lavoro ad artigiani e ad addetti ai servizi che si ritrovarono disoccupati.[48]

Per gestire la complicata situazione, nel settembre 1862 fu inviato a Palermo il generale Giuseppe Govone e l'anno seguente fu proclamato lo stato d'assedio: per stanare i briganti e i renitenti alla leva, Govone agì manu militari con metodi quasi terroristici nei confronti della popolazione civile, come incendi di campi e di case, privazione dell'acqua potabile a interi comuni allo scopo di indurre le famiglie a consegnare i ricercati e perquisizioni casa per casa, arrivando alla cattura di circa 4.000 renitenti e all'arresto o alla costituzione di oltre 1.300 malviventi soprattutto nelle province di Palermo, CaltanissettaAgrigento (allora Girgenti) e Trapani.[10][50] Questi metodi, che provocarono accese proteste in sede parlamentare da parte dell'opposizione di Sinistra, aumentarono la sfiducia e l'odio della popolazione siciliana nei confronti dello Stato centrale.[50]

Fu in questa caotica e violenta fase di transizione che i mafiosi si presentarono con il loro abituale ruolo di mediatori: con il pretesto di proteggere i gabellotti e i contadini dal malgoverno statale e dalle ruberie dei briganti e dei ladruncoli (come si è già detto, possibilmente "arruolati" come campieri per combattere altre bande concorrenti), i mafiosi li costrinsero a pagare una taglia («u' pizzu», "erede" diretto delle «componende» di epoca borbonica) e a mantenere l'omertà, il codice del silenzio, come ricompensa per il loro "servizio"; ben presto, poiché riusciva ad imporre la sua volontà ai numerosi abitanti del latifondo e dei paesi viciniori, il boss mafioso divenne un procacciatore di voti per conto di determinati candidati alle elezioni, accrescendone ulteriormente il potere[9]. Una delle prime testimonianze in merito fu quella del barone Turrisi Colonna, il quale, sopravvissuto ad un tentativo di omicidio, nel 1864 scrisse un pamphletPubblica sicurezza in Sicilia nel 1864, in cui denunciò l'esistenza di un'organizzazione criminale (pur senza nominare il termine «mafia») che minacciava i proprietari terrieri e i contadini e che aveva particolari rituali e una struttura molto articolata[22][46][47]:

«[...] in Sicilia esiste una setta di ladri che ha rapporti in tutta l'isola, e dalla quale i nemici d'Italia potrebbero giovarsi. Setta che trova ogni giorno nuovi affiliati nella gioventù più svelta della classe rurale, che dà e riceve protezione da tutti coloro che sono obbligati a vivere in campagna, che poco o nulla teme la forza pubblica e la giustizia punitrice, lusingandosi nella mancanza delle prove, e per la pressione che si esercita sui testimoni, e sperando finalmente sulle rivoluzioni che al 1848 ed al 1860 fruttarono in Sicilia due generali amnistie pei prevenuti, e pei condannati per reati comuni.»

Il rapporto del prefetto Gualterio sulla «maffia»

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Lo stesso argomento in dettaglio: Rivolta del sette e mezzo.

Il 25 aprile 1865 il prefetto di Palermo, marchese Filippo Antonio Gualterio, inviò un rapporto al ministro dell'Interno Giovanni Lanza in cui affermava l'esistenza della «maffia o associazione malandrinesca» che sarebbe stata capeggiata dall'artigiano palermitano Giuseppe Badia, erede politico dell'ex generale Corrao (ucciso in circostanze misteriose nel 1863) alla guida dell'ala radicale-repubblicana del Partito d'Azione ed organizzatore delle locali società operaie.[1][44][48][51] Il rapporto del prefetto Gualterio (considerato il primo documento ufficiale in cui compare il termine «mafia» intesa come associazione criminosa)[22] fu il catalizzatore di una nuova e feroce repressione portata avanti dal generale Giacomo Medici, il quale, posto alla testa di 15.000 soldati, condusse retate di massa nelle province di Palermo, Trapani e Girgenti[7][52] nei confronti di disertori, renitenti alla leva e presunti «maffiosi», identificati per lo più tra i seguaci politici di Badia (nella sola provincia di Palermo furono catturati 2384 uomini e 180 donne, compreso lo stesso Badia).[17][28][48]

Di lì a poco, nel settembre 1866, scoppiò a Palermo e nei suoi dintorni la famosa rivolta del sette e mezzo, probabilmente organizzata dai seguaci del Badia in combutta con le squadre delle precedenti rivoluzioni siciliane, che esprimevano la diffusa delusione dei ceti popolari nei confronti del nuovo Stato unitario[48]. Uno dei caporioni della rivolta fu infatti "Turi" Miceli, che rimase ucciso durante l'assalto per liberare Badia dalla prigione[17]. La ribellione fu stroncata nel sangue dalle truppe del generale Raffaele Cadorna, che proclamò nuovamente lo stato d'assedio. Dopo questi fatti vi fu una violenta epidemia di colera e si diffuse la voce (rivelatasi infondata) tra la popolazione che sarebbe stata portata dai soldati "piemontesi" arrivati a sedare la rivolta.[53]

Il "metodo" Medici (1868-1873)

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Nel dicembre 1866, al fine di ristabilire l'ordine dopo la rivolta del sette e mezzo, il generale Giacomo Medici fu nuovamente inviato in Sicilia per comandare le truppe di stanza sull'isola e nel 1868 sommò a questa carica quelle di prefetto di Palermo e di direttore generale dei lavori pubblici.[52] Medici fu inoltre uno dei promotori della legge speciale di pubblica sicurezza approvata nel 1871 (legge n. 294/1871), che lo autorizzava all'uso di misure eccezionali (ammonizione giudiziaria e domicilio coatto) nei confronti dei soggetti indicati dalla voce pubblica come «mafiosi»[10][8]. Sotto la sua prefettura, che durò fino al 1873, si inaugurò una pratica già sperimentata dal suo predecessore Antonio Starabba di Rudinì, colui che coniò la distinzione tra «mafia maligna» e «mafia benigna»[17][54]: come avvenne in passato con il famigerato funzionario borbonico Salvatore Maniscalco, si cominciò a fare affidamento sulle cosche mafiose che, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale, il quale non riusciva a garantire un controllo diretto e stabile dell'isola (la cui organizzazione sociale era molto diversa da quella settentrionale)[7][10][55]. Medici addirittura non esitò a servirsi della soffiata di un mafioso per catturare Giuseppe Mazzini, sbarcato a Palermo nel 1870 per organizzare una nuova cospirazione repubblicana.[1][10][31][52] Tuttavia il procuratore generale del Re Diego Tajani non approvò queste pratiche ed incriminò il questore Giuseppe Albanese (sottoposto di Medici) per complicità con le bande criminali, accusa che decadde per insufficienza di prove.[10][8] Tajani fu perciò costretto a dimettersi dalla magistratura.[55]

L'opposizione della Sinistra storica e l'inchiesta Sonnino-Franchetti

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Nel 1874 il ministro dell'Interno Girolamo Cantelli e il suo segretario generale Luigi Gerra (poi nominato prefetto di Palermo) avviarono una dura campagna in Sicilia contro briganti, mafiosi e i loro fiancheggiatori (manutengoli, secondo il linguaggio ufficiale dell'epoca), sospettati di agire in sincronia con una congiura anarchico-internazionalista già scoperta in Romagna[7][31][56]. Furono quindi indagati e repressi dei gruppi di delinquenti nella borgata palermitana dell’Uditore e poi a Monreale che possedevano più di un tratto in comune: una cassa comunitaria, segni di riconoscimento, una gerarchia, regole di comportamento e un rituale d'affiliazione particolare di chiara ispirazione massonica-carbonara, che consisteva nel pungere con uno spillo il dito del neofita e nel fare sgorgare il sangue su un santino[1][10][31]. Alla protesta di Nicolò Turrisi Colonna (esponente della Sinistra cui furono perquisite alcune proprietà alla ricerca di latitanti) si unì quella degli altri proprietari terrieri e dei rappresentanti della Sinistra nei confronti di queste misure considerate un affronto per la Sicilia[7][28][46][47]. Perciò nelle successive elezioni politiche, su 48 deputati siciliani eletti, solo 6 risultarono candidati della Destra[31]. Il 5 dicembre dello stesso anno, il ministro Cantelli presentò un progetto di legge per la concessione di poteri speciali al governo finalizzati a riportare l'ordine in Sicilia[54][55][56]. Il dibattito parlamentare, che vide un aspro scontro tra i deputati di Destra e di Sinistra, si protrasse fino a giugno 1875 e in esso si distinse Diego Tajani, divenuto parlamentare della Sinistra, il quale denunciò la sconvolgente circostanza emersa dalle sue precedenti indagini da magistrato, ossia che a Palermo il questore Albanese e il prefetto-generale Medici, con la copertura del precedente ministro dell'Interno Lanza, proteggevano i mafiosi per mantenere l'ordine pubblico[55]. Per questi motivi, fu istituita la Giunta parlamentare d'inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia che, dopo aver raccolto una vasta documentazione in loco, presentò la relazione finale dei suoi lavori redatta dal deputato lombardo Romualdo Bonfadini, in cui si escludeva che in Sicilia ci fosse una questione sociale e si sosteneva che la mafia non fosse un'associazione organizzata ma soltanto «prepotenza diretta ad ogni scopo di male», una «solidarietà istintiva, brutale»[22][57]. Questa tesi riprendeva le teorie positiviste di Cesare Lombroso e Enrico Ferri, i quali affermavano che le cause principali della delinquenza nell'isola fossero la canicola e le anomalie fisiche della "razza" siciliana.[58][59]

Una "contro-inchiesta" parallela a quella governativa fu condotta dall'intellettuale toscano Leopoldo Franchetti insieme a Sidney Sonnino, che arrivarono in Sicilia per ricercare i fattori ambientali e le cause storico-sociali che avevano generato la mafia e i ritardi dell’isola, pubblicando infine lo studio dal titolo Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: secondo i risultati di tale indagine, la delinquenza minuta che esegue i delitti è costituita dai «facinorosi della classe infima» mentre i mafiosi sono considerati «facinorosi della classe media», un vero e proprio ceto capitalista che, in assenza di una classe borghese ben definita, si arricchisce e acquisisce posizioni di potere mettendo al servizio dei potenti i suoi violenti "servigi" (ad esempio con il racket della "protezione"), mirati ad assumere il controllo monopolistico di determinate attività economiche, tanto che Franchetti parla di «industria della violenza»[57]:

«Tutti i cosiddetti capi mafia sono persone di condizione agiata. Sono sempre assicurati di trovare istrumenti sufficientemente numerosi a cagione della gran facilità al sangue della popolazione anche non infima di Palermo e dei dintorni. Del resto sono capaci di operare da sé gli omicidi. Ma in generale non hanno bisogno di farlo, giacché la loro intelligenza superiore, la loro profonda cognizione delle condizioni della industria ad ogni momento, lega intorno a loro, per la forza delle cose, i semplici esecutori di delitti e li fa loro docili istrumenti. I facinorosi della classe infima appartengono quasi tutti in diversi gradi e sotto diverse forme alla clientela dell’uno o dell’altro di questi capi mafia, e sono uniti a quelli in virtù di una reciprocanza di servigi, di cui il risultato finale riesce sempre a vantaggio del capo mafia. Il quale fa in quell’industria la parte del capitalista, dell’impresario e del direttore. (...) È proprio di lui quella finissima arte, che distingue quando convenga meglio uccidere addirittura la persona recalcitrante agli ordini della mafia, oppure farla scendere ad accordi con uno sfregio, coll’uccisione di animali o la distruzione di sostanze, od anche semplicemente con una schioppettata di ammonizione.»

L'inchiesta di Franchetti e Sonnino si unì a quella del loro mentore, l'intellettuale napoletano Pasquale Villari, il quale, nelle sue celebri Lettere meridionali (1875), oltre a denunciare i mali sociali dell'Italia meridionale quali la camorra e il brigantaggio, compì anche un'analisi del fenomeno mafioso in Sicilia[22][60]:

«(...) Noi abbiamo dunque tre classi distinte. In Palermo sono i grandi possessori dei vasti latifondi o ex-feudi, e nei dintorni abitano contadini agiati, dai quali sorge o accanto ai quali si forma una classe di gabellotti, di guardiani e di negozianti di grano. I primi sono spesso vittime della mafia, se con essa non s’intendono; fra i secondi essa recluta i suoi soldati, i terzi ne sono capitani. Nell’interno dell’Isola si trovano i feudi e i contadini più poveri o proletarii.»

La repressione sotto Nicotera e la scoperta delle associazioni mafiose

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Lo stesso argomento in dettaglio: Fratellanza di Favara.

Nel 1876 la Sinistra salì al potere con Depretis e il nuovo ministro dell'Interno Giovanni Nicotera, messo alle strette dal rapimento dell'industriale inglese John Forester Rose realizzato da una banda di briganti nella zona delle Madonie, decise di inviare a Palermo il prefetto Antonio Malusardi, investito di poteri eccezionali.[28][49] Nel giro di otto mesi (15 gennaio-23 agosto 1877) furono uccisi in conflitto a fuoco ben cinque dei più temibili briganti, ne furono catturati tredici e sei si costituirono volontariamente.[49] Si trattò di un'operazione realizzata con i soliti metodi spicci e feroci: accerchiamento notturno dei comuni, perquisizioni a tappeto e soprattutto uso su larga scala della deportazione dei sospetti, che provocarono talmente sconcerto tra la popolazione da far aumentare il numero dei suicidi e dei tentativi di suicidio.[7] Malusardi trovò l'appoggio dei proprietari terrieri finché si concentrò nella caccia ai briganti ma, quando volse la sua attenzione sui notabili legati alla mafia come il consigliere comunale (futuro deputato) Raffaele Palizzolo, il parlamentare Giuseppe Torina e il marchese Spinola, fu duramente attaccato dalla stampa locale e collocato a riposo nel 1878.[7][10][43][61] Nel clou di questa repressione anti-mafiosa, il ministro Nicotera cercò di accreditare la tesi della collusione della mafia con i cospiratori anarchico-internazionalisti ed infatti, in un discorso tenuto alla Camera dei deputati, affermò: «[gli anarchici] in Romagna erano accoltellatori, nel Napoletano camorristi, mafiosi in Sicilia».[1][62]

A cavallo dell'operazione Malusardi furono inoltre scoperte e processate numerose associazioni segrete che presentavano varie somiglianze con le società operaie di mutuo soccorso e, nonostante si trovassero in territori distanti, presentavano dei tratti in comune tra loro: identici erano statuti, gerarchie, segni di riconoscimento e un particolare rituale di iniziazione sul modello della massoneria, sempre consistente nella puntura di un dito e nella bruciatura del santino su cui era sgorgato il sangue.[22][28][43] Tuttavia il procuratore generale del Re Carlo Morena negò che tutte queste associazioni fossero collegate ed appartenessero ad un'unica organizzazione.[1][17] La più importante e numerosa di queste fu quella degli Stuppagghieri a Monreale, che affonderebbe le sue radici nel "metodo" adottato durante la prefettura Medici: fu allora che sarebbe stata fondata da un fervente mazziniano, fratello del locale delegato di polizia Paolo Palmeri, per combattere a suon di omicidi la vecchia mafia rappresentata dal ceto dei giardinieri[1][23][31]. La sua esistenza venne alla luce nel 1876 grazie alle indagini del successore di Palmeri, Emilio Bernabò, che si servì della testimonianza di un delatore, Salvatore D’Amico da Bagheria, finito ammazzato poco prima di testimoniare al processo contro gli affiliati alla setta, che si concluse in primo grado nel 1878 con alcune condanne ma, spostato a Catanzaro per un vizio di forma, finì con una generale assoluzione nel 1880.[10][31][63]

Nel 1883, alcuni anni dopo la fine del ministero di Nicotera, fu scoperta dal funzionario di P.S. Ermanno Sangiorgi un'altra di queste associazioni, la "Fratellanza", radicata nel grosso comune di Favara, nei pressi di Girgenti (odierna Agrigento), che però aveva ramificazioni nei vicini paesi di Campobello di Licata, Canicattì, Comitini e Palma di Montechiaro, dove si macchiò di parecchi omicidi.[23] La zona in cui la setta agiva era interessata dall'industria estrattiva dello zolfo ed infatti l'associazione trovò proseliti soprattutto tra i ceti zolfatai[28]. Con le sue regole, gerarchie e rituali d'affiliazione, essa presentava le stesse identiche caratteristiche delle società segrete messe sotto processo pochi anni prima: ciò si spiegava con la circostanza che nel 1879 numerosi futuri membri della "Fratellanza" erano stati detenuti insieme a mafiosi palermitani nel carcere di Ustica[28][63]. Nel 1885 i "fratelli" di Favara finirono tutti sotto processo a Girgenti ma molti negarono le loro confessioni, sostenendo che avevano parlato sotto tortura, ma alla fine furono tutti condannati ed incarcerati.[28]

Il caso Notarbartolo

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Lo stesso argomento in dettaglio: Emanuele Notarbartolo e Raffaele Palizzolo.
Il deputato crispino Raffaele Palizzolo, ritenuto il mandante del delitto Notarbartolo.

Il 1º febbraio 1893, su un treno in corsa sulla linea Termini Imerese-Palermo, venne ucciso a coltellate il marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, poi scaraventato giù dalla carrozza ferroviaria dai due sicari[28]. L'omicidio Notarbartolo è considerato dagli studiosi il primo delitto "eccellente" (ossia che colpisce un importante personaggio con incarichi pubblici o visibilità mediatica) compiuto da Cosa nostra in Sicilia[10][64].

Fin da subito il principale sospettato come mandante fu Raffaele Palizzolo, deputato della Sinistra vicino alle posizioni di Crispi, già inquisito dal prefetto Malusardi quale noto protettore di briganti e mafiosi[10][64]. Notarbartolo, rampollo di una delle più importanti famiglie aristocratiche siciliane e sindaco di Palermo dal 1873 al 1876, era invece un uomo della Destra ed infatti fu nominato direttore generale del Banco di Sicilia nel 1876 su proposta di Luigi Gerra, segretario del ministro dell'Interno Cantelli e prefetto di Palermo[65]. Appena insediatosi, trovò una situazione disastrosa: impiego illegale di fondi del Banco per speculazioni finanziarie spericolate e il consiglio d'amministrazione composto da persone di nessuna competenza bancaria ma nominate soltanto per ragioni clientelari ed elettorali.[64] Uno dei principali avversari del Notarbartolo all'interno del consiglio fu appunto Palizzolo, che lo fece addirittura rapire da una banda di briganti che proteggeva e fu rilasciato solamente dopo il pagamento di un lauto riscatto[28][65]. Nel 1890 riuscì perfino a farlo rimuovere dalla direzione del Banco dal governo Crispi ma, tre anni più tardi, Notarbartolo ispirò un'ispezione disposta da Giolitti (subentrato a Crispi), che fece venir fuori le malefatte del nuovo direttore Giulio Benso della Verdura e dei consiglieri d'amministrazione. Le causa dell'omicidio era da ricercarsi probabilmente nel timore che potesse assumere nuovamente la carica di direttore.[65][66]

Le indagini sull'omicidio brancolarono nel buio per lungo tempo: né il questore Michele Lucchesi né il procuratore generale del Re Vincenzo Cosenza osarono interrogare Palizzolo e vi furono seri tentativi di depistaggio.[25] Soltanto nel 1900, grazie al figlio di Notarbartolo, Leopoldo, e all'ascesa al governo di Luigi Pelloux (amico di famiglia dei Notarbartolo), fu possibile portare a processo Palizzolo come mandante e un mafioso alle sue dipendenze, Giuseppe Fontana, come esecutore materiale[28][66]. Il dibattimento, che si svolse a Bologna per legittimo sospetto, fu molto seguito dalla stampa nazionale e perciò rese pubblica in tutta Italia l'esistenza della mafia e i suoi rapporti con la politica.[64] Nel 1902 Palizzolo e Fontana furono riconosciuti colpevoli e condannati a 30 anni di carcere ma, in difesa del deputato (ritenuto vittima di un clima di pregiudizi contro i siciliani da parte dei governanti settentrionali), si costituì il «Comitato pro Sicilia» su iniziativa di intellettuali quali Giuseppe Pitrè e Federico De Roberto, la cui attività si concluse con successo: la sentenza fu annullata per un vizio di forma e il nuovo processo, celebrato a Firenze, si concluse nel 1904 con il proscioglimento per insufficienza di prove dei due imputati.[64]

Il rapporto Sangiorgi

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Lo stesso argomento in dettaglio: Rapporto Sangiorgi.
Illustrazione tratta dal quotidiano L'Ora relativa al processo – scaturito grazie al rapporto Sangiorgi – di Palermo del maggio 1901.

Nel 1898 il nuovo governo presieduto da Luigi Pelloux rimosse il questore di Palermo Michele Lucchesi (accusato da più parti di lassismo nelle indagini sull'omicidio del marchese Notarbartolo), sostituendolo con Ermanno Sangiorgi, che si affrettò ad arrestare il deputato Raffaele Palizzolo e il boss mafioso Giuseppe Fontana, accusati appunto del delitto Notarbartolo.[10][66] Sangiorgi era un funzionario di polizia romagnolo che si era già distinto nelle indagini anti-mafia per aver scoperto e smantellato con gli arresti la Fratellanza di Favara nel 1883.[17] Ed è proprio a queste indagini che si dedicò: sfruttando la favorevole congiuntura offerta dal caso Notarbartolo, scoprì l'esistenza di un «tenebroso sodalizio» suddiviso in otto cosche che si spartivano il controllo delle borgate nella Piana dei Colli a Palermo e che presentavano regole, gerarchie e rituali d'iniziazione comuni tra loro, controllando attività criminali ed imponendo estorsioni ed assunzioni ad importanti famiglie aristocratiche e borghesi, come i Florio e i Whitaker[28][54][67]. I capi delle cosche erano in apparenza possidenti benestanti ed avevano infatti interessi nel lucroso settore agrumario[67]. Sangiorgi condensò queste scoperte in un rapporto stilato tra il novembre del 1898 e il febbraio del 1900, che portò a numerosi arresti e ad un processo, che si concluse con poche ed irrisorie condanne.[28][54] Il prezioso lavoro investigativo di Sangiorgi è emerso soltanto in tempi recenti grazie alle ricerche d'archivio condotte dallo storico Salvatore Lupo.[28]

Le rivendicazioni agricole

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La situazione dopo l'Unità d'Italia

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Nella seconda metà dell'Ottocento, anche se non più con un regime feudale, nelle campagne siciliane gli agricoltori erano ancora sfruttati. I grandi proprietari terrieri risiedevano a Palermo o in altre grandi città e affittavano i loro terreni a gabellotti con contratti a breve termine, che, per essere redditizi, costringevano il gabellotto a sfruttare i contadini. Per evitare rivolte e lavorare meglio, al gabellotto conveniva allearsi con i mafiosi, che da un lato offrivano il loro potere coercitivo contro i contadini, dall'altro le loro conoscenze a Palermo, dove si siglavano la maggioranza dei contratti agricoli[61].

La miserabile condizione dei contadini e dei zolfatai siciliani (già denunciata con lucidità dal Villari e dai suoi allievi Franchetti e Sonnino) rese possibile la diffusione a macchia d'olio sull'isola delle idee e delle organizzazioni facenti capo all'Internazionale socialista, che perciò i ministri dell'Interno Cantelli (della Destra) e Nicotera (della Sinistra) perseguitarono duramente con la scusa che fosse strettamente legata alla mafia[1][7][68]. Per citare i casi più noti di perseguitati politici con l'accusa pretestuosa di essere "mafiosi", durante il ministero Cantelli vi fu il fratello del deputato radicale Saverio Friscia sottoposto alla misura del domicilio coatto mentre, sotto Nicotera, il leader internazionalista trapanese Francesco Sceusa fu ammonito per impedirgli di svolgere la sua attività politica[1][7]. La relazione tra mafia e movimenti rivoluzionari fu per altro negata già all'epoca dal Procuratore del Re Giuseppe Di Menza[1][7]. Lo storico Francesco Brancato ne da la seguente spiegazione[7]:

«Una correlazione quindi tra i due fenomeni vi era in effetti, ma non nel senso sopra accennato. Era infatti avvenuto che in quelle zone, per la cresciuta miseria dei ceti proletari, l'Internazionale aveva trovato un terreno più favorevole alla sua diffusione, per l'adesione incontrata soprattutto tra i giovani intellettuali appartenenti alla piccola borghesia cittadina e alla classe dei professionisti. Da qui era avvenuto che i ceti più abbienti, di fronte alle "macchinazioni" degli internazionalisti, s'erano maggiormente stretti alla mafia la quale s'era anche per questa ragione maggiormente potenziata, avendo assunto ancora una volta, agli occhi dei grossi proprietari, un ruolo di straordinaria importanza: di conservazione cioè e di reazione contro il pericolo di rivolgimenti sociali.»

I fasci siciliani

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Lo stesso argomento in dettaglio: Fasci siciliani e Bernardino Verro.

A partire dal 1891 ebbero notevole diffusione in Sicilia i fasci, movimenti organizzati di matrice socialista che s'ispiravano al modello delle società operaie di mutuo soccorso di stampo mazziniano e repubblicano.[6] Ne facevano parte in maggioranza contadini, artigiani, zolfatai e, per la prima volta, anche donne, che chiedevano ai "padroni" un trattamento lavorativo più equo, il cambiamento delle condizioni d'affitto dei terreni e maggiori diritti. I "padroni" si identificavano nei proprietari terrieri e nei loro gabellotti affiliati alla mafia.[28]

I fasci più forti sorsero a Catania con Giuseppe De Felice Giuffrida, a Palermo con Rosario Garibaldi Bosco, a Piana dei Greci (odierna Piana degli Albanesi) con il medico Nicola Barbato, a Corleone con Bernardino Verro e ad Erice con Giacomo Montalto[69]. Verro in particolare riuscì a riunire nel locale fascio circa 6.000 persone, quasi la totalità della popolazione adulta di Corleone[6]. Il successo dei fasci era dovuto alla graduale diffusione dell'istruzione tra i ceti proletari e al disastro economico provocato dalla forsennata guerra commerciale con la Francia voluta da Crispi, che aveva danneggiato l'esportazione dei principali prodotti siciliani (frutta, vino e zolfo) e che, di conseguenza, aveva trascinato nella crisi produttori e lavoratori[53]. Influì anche la fondazione del Partito Socialista Italiano, avvenuta a Genova nel 1892, che prese i fasci sotto la sua ala.[6] Alcuni storici, come Giuseppe Carlo Marino e Salvatore Lupo, ritengono che il successo fu inizialmente dovuto anche ad infiltrazioni della mafia, probabilmente perché l'organizzazione malavitosa non voleva perdere il consenso dei contadini: infatti Vito Cascio Ferro, uno dei più famigerati mafiosi della sua epoca, divenne dirigente dei fasci di Bisacquino e di Chiusa Sclafani (comuni entrambi vicini a Corleone), e lo stesso Verro accettò di entrare a far parte di una cosca mafiosa, i "fratuzzi", che lo sottoposero al solito rituale d'affiliazione di stampo massonico[6][10][28]. Come lui stesso raccontò in un'autobiografia resa pubblica dopo la sua morte, l'affiliazione ai "fratuzzi" sarebbe avvenuta nella primavera del 1893:

«Fui invitato a prendere parte ad una riunione segreta dei Fratuzzi. Entrai in una stanza misteriosa dove erano presenti alcuni uomini armati di pistola, seduti intorno ad un tavolo. Al centro del tavolo c'era un pezzo di carta su cui era disegnato un teschio, e un coltello. Per essere ammessi nei Fratuzzi, dovevo essere sottoposto ad una iniziazione costituita da alcune prove di fedeltà e dalla puntura del labbro inferiore con la punta del coltello: il sangue dalla ferita avrebbe macchiato il teschio.[70]»

Tuttavia, alla fine dello stesso anno, i proprietari terrieri siciliani, preoccupati dagli scioperi e dai disordini nelle campagne, si appellarono a Crispi che, tornato al governo, proclamò lo stato d'assedio sull'isola ed affidò la feroce repressione al generale Roberto Morra di Lavriano, che fece sparare sui manifestanti inermi ed eseguì arresti di massa[53]. I principali dirigenti dei fasci (De Felice Giuffrida, Garibaldi Bosco, Barbato e Verro) furono imprigionati e condannati da tribunali militari a pene severissime. Perciò l'Onorata società (termine usato all'epoca per identificare Cosa nostra) si distaccò dai fasci (che avevano tentato in tutti i modi di evitare la penetrazione di mafiosi nelle loro file, spesso riuscendoci) e anzi aiutò il governo nella repressione. Infatti a Lercara Friddi (11 morti), a Gibellina (20 morti) e a Giardinello (7 morti e 12 feriti), a sparare sulla folla di manifestanti non furono soltanto le truppe inviate a sedare la rivolta ma anche i campieri e le guardie municipali al servizio dei sindaci, che spesso appartenevano alla mafia[22][8]. Tuttavia, nei processi che ne seguirono, i mafiosi che spararono sulla folla furono assolti mentre i manifestanti legati ai fasci che avevano ricevuto le pallottole furono condannati a pene durissime (in alcuni casi anche all'ergastolo).[22][8]

L'età giolittiana

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Le "affittanze collettive"

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Cartina della Sicilia del 1900 che mostra la densità mafiosa dei comuni siciliani, pubblicata dal delegato di P.S. Antonino Cutrera nel suo libro "La mafia e i mafiosi".

La presidenza di Giovanni Giolitti (che governò, salvo brevi interruzioni, dal 1903 al 1914)[71] fu caratterizzata da una serie di trasformazioni sociali ed economiche. Con l'introduzione della legge n. 100 del 1906 (promossa dall'allora primo ministro Sidney Sonnino), che autorizzava il Banco di Sicilia e le casse rurali a fare prestiti alle cooperative, si riuscì a consolidare ed estendere la stagione delle «affittanze collettive», cioè i contratti di affitto stipulati direttamente tra proprietari terrieri e cooperative contadine.[10][72] Ad entrare nel nuovo mercato furono soprattutto le cooperative socialiste, i cui promotori furono Bernardino Verro (già "padre" dei Fasci siciliani) a Corleone, Lorenzo Panepinto a Santo Stefano Quisquina, Nicola Alongi a Prizzi e Giacomo Montalto[69] e Sebastiano Cammareri Scurti ad Erice[73], mentre quelle cattoliche agirono ispirate dall'opera di don Luigi Sturzo e di don Alberto Vassallo di Torregrossa, sul modello dell'esperienza già avviata in Veneto da padre Luigi Cerutti e in Lombardia da Guido Miglioli.[6][10][74][75]

Il sistema delle «affittanze collettive» contribuì all'eliminazione della figura del gabellotto parassitario (quasi sempre coincidente con il mafioso) ma non eliminò del tutto il ruolo della mafia, che si trasformò in quello di mediare tra cooperative e proprietari terrieri per la stipula dei contratti d'affitto[6][10]. Inoltre, per stroncare il pericolo "rosso" che si esprimeva con gli scioperi (favoriti dalla politica intrapresa da Giolitti), le cooperative cattoliche non si chiusero ad infiltrazioni mafiose, a patto che questi ultimi scoraggiassero in tutti i modi i socialisti, che appunto rifiutavano categoricamente la mediazione mafiosa nella stipula dei contratti[28]. Nel primo quindicennio del '900 si iniziarono perciò a contare le prime vittime socialiste ad opera della mafia: nella sola Corleone furono uccisi, in rapida successione, i militanti socialisti Luciano Nicoletti (1905), Andrea Orlando (1906) e lo stesso Verro (1915), oltre a Panepinto (1911), mentre nel 1914 a Piana dei Greci (odierna Piana degli Albanesi) furono trucidati Mariano Barbato (cugino di Nicola) e Giorgio Pecoraro, anche loro impegnati nella lotta contadina. I processi ai presunti responsabili di questi omicidi si conclusero quasi sempre con l’assoluzione.[6]

Il "ministro della malavita"

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Lo stesso argomento in dettaglio: Il ministro della mala vita.

Nonostante le riforme sociali da lui promosse, Giolitti venne accusato da più parti di considerare la Sicilia come un mero serbatoio di voti poiché, nonostante le sue schiaccianti vittorie, egli non mise mai piede sull'isola (e nel meridione in generale)[76]: la sua base elettorale era costituita dalla corruzione dei deputati locali soprannominati spregiativamente gli "àscari"[77] del governo, conniventi a loro volta con la criminalità mafiosa (i famosi "mazzieri")[78] che si occupava di eseguire intimidazioni ed atti violenti nei confronti dei seguaci dei partiti avversi, come denunciò anche Gaetano Salvemini[79], definendo lo statista «ministro della malavita» in un celebre saggio da lui scritto. Lo storico Giuseppe Carlo Marino affermò che «[Giolitti] si orientò ad accettare l'idea che se quei potenti signori siciliani volevano la mafia avrebbero potuto pure tenersela a condizione che appoggiassero il suo governo»[6]. Un caso emblematico della generale corruzione dei deputati siciliani è rappresentato da Nunzio Nasi, parlamentare e per due volte ministro, avversario e sostenitore di Giolitti a seconda delle circostanze, nonché massone e patrono di vaste clientele (non immuni da influenze mafiose)[6] nel trapanese, che nel 1908 fu condannato dall'Alta Corte di giustizia per aver rubato denaro pubblico ed aver attestato il falso: tale condanna (che scontò interamente non in prigione ma a casa propria) provocò violente dimostrazioni di protesta in tutta la Sicilia (ispirate anche da intellettuali del calibro di Luigi Capuana che fondarono comitati "pro-Nasi") in quanto la popolazione considerò le accuse ingiuste perché ispirate da sentimenti anti-siciliani da parte dei "continentali".[80] Scrisse lo storico Denis Mack Smith: «Il processo all'ex ministro siciliano Nasi per peculato rafforzò la convinzione generale che la corruzione nell'isola fosse molto diffusa, e [Enrico] Ferri affermò una volta in pieno parlamento che esistevano solo poche "oasi" di onestà in tutto il Mezzogiorno.»[53]

L'emigrazione negli Stati Uniti e il delitto Petrosino

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Lo stesso argomento in dettaglio: Cosa nostra statunitense, Mano Nera (estorsione) e Joe Petrosino.
Il tenente italo-americano Joe Petrosino, ucciso a Palermo nel 1909.

Un altro fenomeno che contraddistinse l'epoca giolittiana fu l'emigrazione in massa verso le Americhe: da 15.432 emigranti siciliani che lasciarono l'isola nel 1896, si salì a 127.603 nel 1906 per toccare la punta massima di 146.061 nel 1913.[7][81] Mescolati tra di loro vi erano, ovviamente, i mafiosi che impiantarono negli Stati Uniti le stesse attività che li avevano resi "celebri" in Sicilia: taglieggiamenti ed estorsioni nei confronti dei connazionali, omicidi, corruzione ed infiltrazione nei clubs politici (fra tutti, la Tammany Hall) e nei sindacati degli operai.[28] Le estorsioni avvenivano con un particolare metodo: si spediva al malcapitato una lettera con minacce e richieste di denaro firmata solamente con un'impronta di mano realizzata con l'inchiostro nero, tanto che la stampa statunitense affibbiò alla misteriosa organizzazione il nomignolo di "Mano Nera".[28][76] Rimasero vittime di questo tipo di estorsione anche il famoso tenore Enrico Caruso e il trasformista Leopoldo Fregoli[82]. Su quest'organizzazione indagò a lungo l'italo-americano Joe Petrosino, tenente della Polizia di New York, il quale accertò che essa era composta in maggioranza da delinquenti siciliani e che quindi fosse necessario recarsi in Sicilia per effettuare più accurate indagini perché era lì che risiedeva la centrale dell'associazione[76]. Il 20 febbraio 1909, prima di giungere a Palermo in missione segreta dagli Stati Uniti, Petrosino s'incontrò a Roma con il ministro dell'Interno di Giolitti, Camillo Peano, che gli promise la massima collaborazione alle sue indagini da parte del governo italiano[76][82]. Dopo soltanto un mese circa, la sera del 12 marzo, Petrosino fu freddato nella centralissima Piazza Marina a Palermo da uno sconosciuto che subito si dileguò: si trattò del primo omicidio "eccellente" del nuovo secolo, che fece grande impressione in Italia e negli Stati Uniti ma rimase impunito[76]. Infatti il presunto assassino, Vito Cascio Ferro, riuscì a cavarsela grazie ad un alibi fabbricatogli dal barone Domenico De Michele Ferrantelli, deputato filogiolittiano di Bivona e noto mafioso.[6][9][17][83]

La prima guerra mondiale e le sue conseguenze

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Nel 1915 l'Italia entrò nella prima guerra mondiale; vennero chiamati alle armi centinaia di migliaia di giovani da tutto il Paese. In Sicilia i disertori furono numerosi: essi abbandonarono le città e si dettero alla macchia all'interno dell'isola, andando ad ingrossare le file dei briganti che vivevano per lo più di rapine ed abigeati[84]. A causa della mancanza di braccia per l'agricoltura e della sempre maggiore richiesta di soldati dal fronte, moltissimi terreni vennero adibiti al pascolo.

Aumentati i furti di bestiame, i proprietari terrieri si rivolsero sempre più spesso ai mafiosi, piuttosto che alle impotenti autorità statali, per farsi restituire almeno in parte le mandrie. I boss, nei loro abituali panni, si prestavano a mediare tra i banditi e le vittime, prendendo una percentuale per il loro lavoro.[9] Quella degli abigeati divenne un'autentica industria, tanto che gli "uomini d'onore" disponevano di una flottiglia di pescherecci per il trasporto del bestiame da ricettare verso le coste della Tunisia[9][8], dove la mafia aveva impiantato una sua "colonia" rimasta operativa almeno fino agli anni '50 (stando al racconto dell'ex boss mafioso Antonino Calderone)[85]. Siccome durante la Grande Guerra c'era l'ordine di requisire cavalli ed asini ai civili per esigenze belliche, i mafiosi fecero affari d'oro vendendo all'esercito il bestiame rubato, spesso con la complicità degli alti comandi[9][68].

Queste condizioni fecero aumentare enormemente l'influenza di Cosa nostra in tutta l'isola. Nel maggio 1916, per estirpare il brigantaggio, il governo decise la formazione di speciali squadriglie composte da carabinieri, poliziotti e cavalleggeri, il cui comando fu affidato al vicequestore Cesare Mori, che si distinse per i suoi metodi brutali, come perquisizioni indiscriminate, occupazione militare dei comuni, rastrellamenti e retate di massa, che nel giro di due anni gli consentirono di debellare ben quattro bande di briganti operanti tra le province di Caltanissetta, Girgenti e Palermo.[84][86]

Alla fine della prima guerra mondiale, l'Italia dovette affrontare un momento di crisi, che rischiò di sfociare in una vera e propria rivolta popolare, ad imitazione della recente rivoluzione russa, tanto che questo periodo viene ricordato come «biennio rosso» (1919-1920). Al nord gli operai scioperarono ed occuparono le fabbriche chiedendo migliori condizioni di lavoro, al sud furono i giovani appena tornati a casa a lamentarsi per le promesse non mantenute dal governo (in particolar modo quelle relative alla terra). Moltissimi quindi andarono ad ingrossare le file dei banditi, altri entrarono direttamente nella mafia e altri ancora parteciparono alla rinascita dei movimenti socialisti siciliani o comunque formarono delle cooperative di reduci per ottenere l'affittanza diretta dei latifondi[9][8]. Queste aspirazioni trovavano riscontro in un diritto legittimo: già nel 1917 era stata istituita l'Opera Nazionale Combattenti, ente pubblico che aveva il potere di espropriare terreni incolti da destinare alle cooperative di reduci, mentre nel 1919 il governo Nitti emanò il decreto-legge proposto dal ministro dell'agricoltura Visocchi che consentiva l'assegnazione dei latifondi in stato di abbandono alle cooperative o alle leghe di contadini da parte delle prefetture.[6] Tuttavia il blocco agrario si coalizzò nuovamente con la mafia per soffocare nel sangue le richieste di questi movimenti: furono colpiti infatti gli esponenti più rappresentativi, come avvenne per Nicola Alongi, ucciso a Prizzi il 29 febbraio 1920, o per Sebastiano Bonfiglio, assassinato ad Erice il 10 giugno 1922, e tanti altri[22]. Fu in questo clima di tensione che il fascismo fece la sua comparsa.

Il ventennio fascista

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Il "prefetto di ferro"

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Lo stesso argomento in dettaglio: Cosa nostra durante il fascismo e Cesare Mori.
Il prefetto Cesare Mori in camicia nera presso Piana dei Greci (odierna Piana degli Albanesi).

Dopo una visita in Sicilia avvenuta nel maggio 1924, il Presidente del Consiglio Benito Mussolini decise di intraprendere una campagna per sradicare una volta per tutte la mafia. La leggenda vuole che, durante il viaggio, Mussolini fu oltraggiato in pubblico dal sindaco-mafioso di Piana dei Greci, don Ciccio Cuccia, e da lì sarebbe partito il suo risentimento contro la mafia[9][84]. Probabilmente covava già questo proposito, il quale si collocava nella sua volontà di una generale riorganizzazione dello Stato in senso autoritario e totalitario, che quindi non poteva tollerare la concorrenza di poteri alternativi quale era quello mafioso.[7] Mussolini affidò l'incarico a Cesare Mori, funzionario di polizia che si era già distinto nella repressione del brigantaggio isolano durante la Grande Guerra, e lo destinò inizialmente alla prefettura di Trapani, dove rimase fino il 20 ottobre 1925, quando fu nominato prefetto di Palermo con poteri eccezionali estesi a tutta la Sicilia.[86]

Alle elezioni amministrative del 1925, il blocco agrario-mafioso rappresentato dal principe Pietro Lanza di Scalea capì l'antifona ed abbandonò il suo vecchio protettore, lo statista liberale Vittorio Emanuele Orlando (addirittura "uomo d'onore" organico all'organizzazione, a detta dell'ex boss Buscetta)[87], per appoggiare il listone fascista capeggiato dal medico oculista Alfredo Cucco, non esitando a servirsi della solita manovalanza malavitosa per intimidire gli avversari politici.[84][88] Durante la campagna elettorale, Orlando tenne un celebre discorso pubblico al Teatro Massimo di Palermo, che fu interpretato come un tentativo maldestro di recuperare il favore perduto delle consorterie[84]:

«[...] Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso dell'onore portato fino all'esagerazione, l'insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell'anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!»

Un'altra frangia del notabilato mafioso guidata dal deputato liberal-democratico Andrea Finocchiaro Aprile (indicato anche lui come "uomo d'onore" da Buscetta ma fiero avversario politico di Orlando in quanto vicino alle posizioni di Nitti ed Amendola)[28][87] ripiegò invece su posizioni dichiaratamente sicilianiste (ossia l'ideologia politica che auspicava l'autonomia e l'indipendenza isolana) in aperta opposizione al fascismo, considerato «l'esponente del capitalismo settentrionale contro il Mezzogiorno d'Italia» (dottrina che nell'immediato dopoguerra sfocerà nella fondazione del movimento separatista).[6][89]

Mori non disturbò per il momento questi potentati e puntò subito l'attenzione alla delinquenza minuta (la cosiddetta «bassa mafia»), ossia alle bande di briganti che erano da sempre molto numerose nella zona delle Madonie ed avevano la loro base logistica nel piccolo comune montano di Gangi.[84] Ai primi di gennaio del 1926 fece porre un vero e proprio assedio a Gangi, tornando ai suoi vecchi metodi spicci che «avrebbero fatto impallidire i gesuiti della Santa Inquisizione», come scrisse lo studioso Michele Pantaleone: occupazione militare del comune, distruzione di beni e proprietà, privazione dell'acqua potabile agli abitanti, perquisizioni, arresti arbitrari e, in alcuni casi, torture.[9] Dopo circa una settimana di "assedio", tutti i capi-banda accettarono finalmente di arrendersi grazie alla decisiva mediazione dei baroni Li Destri e Sgadari (noti capi-mafia che fino ad allora li avevano protetti ma ora si adeguavano alla nuova situazione)[6][10][90] e il successo di quest'azione contribuì ad alimentare il mito di Mori quale "prefetto di ferro"[28][84][86]. Durante il biennio 1926-1927 il "metodo" Mori fu replicato in tutti i comuni della Sicilia occidentale con retate di massa che portarono in carcere persone sulla base di semplici sospetti ma anche numerosi caporioni della mafia del calibro di Vito Cascio Ferro e Calogero Vizzini[9]. Gli arrestati furono portati a centinaia sul banco degli imputati (vi furono casi in cui si arrivarono a contare fino a quattrocento imputati in un solo giudizio, dei veri e propri maxi-processi ante litteram)[8], dove la pubblica accusa era spesso rappresentata dal Procuratore generale del Re Luigi Giampietro o da uno dei suoi pubblici ministeri più fidati, Giuseppe Guido Lo Schiavo[91], che fecero condannare i presunti "mafiosi" a pene severissime per fatti mai commessi o, se venivano assolti, gli facevano assegnare il confino di polizia[9][84][86].

Nel 1927 Mori presentò alcuni dossier (basati in gran parte su informazioni anonime) che accusavano il deputato fascista Alfredo Cucco e il generale Antonino Di Giorgio di presunti legami con la mafia. Entrambi ebbero la carriera rovinata: Di Giorgio fu costretto alle dimissioni da ogni incarico mentre Cucco fu espulso dal partito fascista e finì sotto processo, da cui fu infine assolto per insufficienza di prove.[84] Probabilmente i due erano stati soltanto dei capri espiatori dati in pasto a Mori per coprire più alte responsabilità oppure, secondo un'altra ipotesi, vittime di una lotta di potere tra fazioni politiche cui il "prefetto di ferro" si sarebbe prestato.[28][86][92]

Il 26 maggio 1927, in un famoso discorso alla Camera dei deputati, Mussolini annunciò trionfalmente che i reati in Sicilia erano stati dimezzati e che la mafia si avviava verso la definitiva sconfitta[84]. Perciò l'anno seguente, Mori fu nominato senatore del Regno e nel giugno 1929 fu improvvisamente posto a riposo "per anzianità di servizio" con un telegramma di Mussolini[86]. Nel 1931 anche Giampietro lasciò la magistratura per limiti d'età[84]. La propaganda fascista poté finalmente proclamare che la mafia era stata definitivamente debellata[84].

L'istituzione dell'Ispettorato di Pubblica sicurezza per la Sicilia

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Lo stesso argomento in dettaglio: Melchiorre Allegra.

Nel 1932, in occasione del decennale della marcia su Roma, fu promulgata un'amnistia che portò alla scarcerazione di numerosi mafiosi che erano stati arrestati e condannati durante l'operazione Mori[17]. Essi tornarono subito a delinquere e le conseguenze furono evidenti: a Canicattì, nell'agrigentino, vennero consumati tre omicidi «le cui modalità di esecuzione ed il mistero profondo in cui rimangono tuttora avvolti» rimandano a «delitti tipici di organizzazioni mafiose»; intorno a Partinico, alla metà degli anni trenta, si verificarono «incendi, danneggiamenti, omicidi […] a sfondo eminentemente associativo».[10]

Nel settembre 1933 fu quindi istituito l'Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza per la Sicilia, sotto il comando del questore Giuseppe Gueli, che aveva un organico misto di uomini dell'Arma dei carabinieri e del Regio Corpo degli agenti di pubblica sicurezza, con competenza d'indagine su tutta l'isola. Le sue operazioni furono tenute nascoste dal regime fascista perché ufficialmente la mafia era stata dichiarata estinta con Mori.[93]

Le indagini dell'Ispettorato accertarono che la mafia era organizzata «in forma settaria sulla falsa riga della massoneria» e stava attraversando una fase di transizione perché essa «[con Mori] fu sfrontata, potata, quasi intaccata al tronco, ma la base e le radici rimasero intatte, perché costituite dai cosiddetti "stati maggiori", ormai notoriamente composti da professionisti, titolati e da individui, in genere, di elevata classe sociale»[93], che si identificavano nei fratelli Marasà, ricchi gabellotti di fondi agricoli nella borgata palermitana di Boccadifalco, i quali infatti non furono minimamente toccati dalla repressione di Mori perché probabilmente avevano fornito informazioni incriminanti sui loro rivali all'interno della mafia, che finirono tutti in prigione e ora tornavano dopo l'amnistia per vendicarsi con omicidi ed attentati.[17][93] Nel 1938 queste scoperte furono condensate in un dettagliato rapporto di denunzia, che dovette aspettare altri tre anni per arrivare in tribunale: i fratelli Marasà e tanti altri indagati furono prosciolti da ogni accusa per mancanza di prove e il processo, come al solito, si concluse con pochi imputati condannati a pene miti[17][93]. Nel frattempo i pochi mafiosi che avevano accettato di collaborare con l'Ispettorato rivelando strutture gerarchiche, rituali ed organigrammi, ritrattarono pubblicamente le loro confessioni, affermando che gli erano state estorte con la tortura.[17][93]

Le indagini dell'Ispettorato non si fermarono qui. Infatti, nel luglio 1937, prima i carabinieri di Castelvetrano e poi la pubblica sicurezza di Alcamo raccolsero la testimonianza del medico Melchiorre Allegra, incappato in una retata dell'Ispettorato nella zona tra Trapani e Palermo, il quale confessò di essere mafioso, appartenente cioè ad «una setta con potenti ramificazioni, oltre che in Sicilia, in Tunisia, nelle Americhe e in Francia», e rivelò l'esistenza dei soliti rituali d'iniziazione, gerarchie e regole di comportamento[93][94]. Oltre a fare i nomi di professionisti e notabili aderenti alla mafia, raccontò anche che, alcuni anni prima, il "prefetto di ferro" Mori avrebbe fatto da paciere fra le cosche in lotta per la spartizione di una tangente su alcuni appalti portuali e a tale scopo avrebbe organizzato, con la mediazione del barone Lucio Tasca Bordonaro (anche lui "uomo d'onore" affiliato alla mafia e futuro sindaco di Palermo), una riunione che si tenne in prefettura e vide la partecipazione dei principali capi-mafia[17][94]. Stranamente, quei verbali non furono neanche presi in considerazione e rimasero sepolti in archivio per parecchi anni, finché furono ritrovati dal giornalista Mauro De Mauro nel 1962.[93][94][95]

I rapporti e i documenti sulle attività dell'Ispettorato furono invece scoperti soltanto nel 2007 grazie alle ricerche condotte negli archivi dagli storici Vittorio Coco e Manoela Patti sotto la supervisione di Salvatore Lupo.[93][96]

La seconda guerra mondiale e il dopoguerra

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Dibattito sul ruolo di Cosa nostra nello sbarco alleato in Sicilia

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Lo stesso argomento in dettaglio: Sbarco alleato in Sicilia e Calogero Vizzini.
Calogero Vizzini

Le voci di un possibile concorso di Cosa nostra nello sbarco alleato in Sicilia (9-10 luglio 1943) e nella successiva invasione dell'isola nacquero già alla fine della seconda guerra mondiale. Si pensò subito che vi fosse coinvolto il noto boss mafioso italo-americano Charles "Lucky" Luciano, inspiegabilmente scarcerato nel 1946 ed espulso dagli Stati Uniti. Nel 1951 indagò su questa faccenda pure la Commissione d'inchiesta statunitense sul crimine organizzato presieduta dal senatore Estes Kefauver, la quale giunse a queste conclusioni[22][97]:

«Durante la seconda guerra mondiale si fece molto rumore intorno a certi preziosi servigi che Luciano, a quel tempo in carcere, avrebbe reso alle autorità militari in relazione a piani per l'invasione della sua nativa Sicilia. Secondo Moses Polakoff, avvocato difensore di Meyer Lansky, la Naval Intelligence aveva richiesto l'aiuto di Luciano, chiedendo a Polakoff di fare da intermediario. Polakoff, il quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi allora rivolto a Meyer Lansky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri, durante i quali Luciano fornì certe informazioni.»

Infatti la Commissione Kefauver accertò che nel 1942 Luciano (condannato a cinquant'anni di reclusione per sfruttamento della prostituzione nel 1936 e da allora detenuto in un carcere di massima sicurezza) offrì il suo aiuto al Naval Intelligence per indagare sul sabotaggio di diverse navi nel porto di Manhattan, di cui furono sospettate alcune spie naziste infiltrate tra i portuali; in cambio della sua collaborazione, Luciano venne trasferito in un altro carcere, dove venne interrogato dagli agenti del Naval Intelligence e offrì anche di recarsi in Sicilia per prendere contatti in vista dello sbarco, progetto comunque non andato in porto[97][98]. È quasi certo che la collaborazione di Luciano con il governo statunitense sia finita qui, anche se una parte della pubblicistica ritiene provato il complotto tra Cosa nostra e servizi segreti statunitensi volto a favorire lo sbarco e l'avanzata degli anglo-americani: il racconto più celebre fu quello fornito dallo studioso e giornalista Michele Pantaleone, il quale sostenne che, attraverso Luciano, la testa di ponte dell'invasione alleata in Sicilia sarebbe stato Calogero Vizzini, detto don Calò, notabile e gabellotto di Villalba, ritenuto nel dopoguerra il capo supremo della mafia.[9][28] Lo studioso riportò nel celebre saggio da lui scritto, Mafia e politica (1962), la sua testimonianza oculare e quella di altri abitanti di Villalba che nel '43 avrebbero visto aerei caccia americani lanciare un fuolard con il simbolo L (di Luciano) per annunciare lo sbarco e un carro armato con identico vessillo prelevare l'anziano capo-mafia per concordare i movimenti di truppe con gli alti comandi alleati: frutto di questo pactum sceleris fu la ricostruzione di Cosa nostra dopo i duri colpi inferti dal prefetto Mori durante il fascismo[9]. Inoltre l'Amgot (il governo militare dei territori occupati dagli Alleati diretto dal colonnello Charles Poletti) si sarebbe affidato completamente a Vizzini per scegliere gli uomini da collocare nei posti-chiave dell'amministrazione isolana e lo stesso Poletti si scelse come interprete di fiducia l'italo-americano Vito Genovese, luogotenente di Luciano in Italia.[9]

In tempi più recenti la teoria del coinvolgimento di Cosa nostra nello sbarco alleato è stata riproposta dagli storici Nicola Tranfaglia e Giuseppe Casarrubea, a seguito della scoperta di documenti desecretati dall'amministrazione Clinton e conservati presso il NARA di Washington e il College Park del Maryland relativi ad un piano elaborato nel luglio 1942 da due agenti italo-americani dell'O.S.S. (i servizi segreti statunitensi antesignani della C.I.A.), Max Corvo e Victor Scamporino, che prevedeva il reclutamento di «sei agenti di origine siciliana» negli Stati Uniti da inviare in Sicilia prima dello sbarco con funzioni di spionaggio, sabotaggio e guerra psicologica, ma non è stato chiarito se il progetto fu effettivamente realizzato e se gli agenti fossero di estrazione mafiosa poiché Corvo, il 20 luglio 1943, scrisse «l’efficacia delle infiltrazioni [degli agenti dell’O.S.S. nell’isola] è stata vanificata e resa quasi impossibile dalla rapidità delle operazioni militari».[99][100]

Queste ricostruzioni sono però smentite da altre testimonianze: infatti le ricerche condotte dagli storici Salvatore Lupo, Rosario Mangiameli, Francesco Renda e John Dickie liquidano l'aiuto di Cosa nostra allo sbarco alleato come una «favola che ha la forza di un mito»[28][36][101][102]. Innanzitutto il racconto di Pantaleone presenterebbe delle falle perché in contraddizione con altre testimonianze oculari[103]. E bisogna notare che gli anglo-americani avevano mezzi militari superiori agli italo-tedeschi da non aver bisogno dell'aiuto della mafia per sconfiggerli: lo sbarco in Sicilia fu l'operazione aereo-navale più grande della storia militare che vide coinvolti circa 450.000 soldati, 2.775 navi, 4.000 aerei, 14.000 veicoli e 600 carri armati, un'operazione talmente segreta e delicata che gli Alleati non ne avrebbero certo messo a conoscenza la mafia[36]. Al di là di questo, come ha osservato Salvatore Lupo, nell'eventualità di un aiuto della mafia, la zona scelta per lo sbarco sarebbe stata allora quella della Sicilia occidentale, da cui proveniva la maggioranza dei mafiosi emigrati negli States, e non la zona sud-orientale dell'isola, dove effettivamente avvenne e dove Cosa nostra all'epoca non disponeva di valide teste di ponte.[101][104][105] I documenti ufficiali dimostrano inequivocabilmente che i contatti tra mafia e Alleati effettivamente vi furono ma avvennero dopo lo sbarco e non prima: si hanno le prove di incontri di Vizzini con agenti dell'O.S.S. per riportare l'ordine nelle campagne turbate dal crescente banditismo[28]. Poi anche il ruolo di Vizzini sarebbe da ridimensionare: egli avrebbe cercato di accreditarsi presso i suoi interlocutori statunitensi come il capo assoluto della mafia e, secondo la testimonianza dell'ex boss Antonino Calderone, gli stessi capi-mafia erano infastiditi dall'atteggiamento esuberante di Vizzini perché amava mettersi «troppo in mostra» come «cantanti e ballerine»[85], a dispetto della segretezza dell'organizzazione[28][104].

Un momento dello sbarco alleato in Sicilia.

Inoltre, come dimostrato dal rapporto dell'Ispettorato di Pubblica sicurezza del '38, Cosa nostra non era stata completamente smantellata dal prefetto Mori ma si stava riorganizzando già prima della guerra e quindi non avrebbe avuto bisogno degli Alleati per rinascere, come sostenuto da Pantaleone.[104] Spesso, nella nomina delle autorità locali da sostituire a podestà e prefetti fascisti, l'Amgot si affidò semplicemente al parere di interpreti di origine siciliana (in diversi casi provenienti da ambienti mafiosi italo-americani, come avvenne con Vito Genovese) o a quello delle autorità ecclesiastiche locali e dell'aristocrazia terriera, con cui aveva instaurato un ottimo rapporto: un esempio su tutti, Vizzini fu scelto come sindaco di Villalba su raccomandazione della diocesi di Caltanissetta perché proveniente da una famiglia di parroci e vescovi mentre a Palermo fu nominato sindaco il barone Lucio Tasca Bordonaro, massimo rappresentante della nobiltà agraria siciliana (ed indicato in un rapporto dei carabinieri come un autentico capo-mafia)[22][28]. La situazione è ben descritta in un rapporto segreto intitolato "The problem of mafia in Sicily" redatto dal capitano dell'O.S.S. William E. Scotten il 29 ottobre 1943 sempre per conto dell'Amgot (quindi poche settimane dopo l’avvenuta occupazione)[99]:

«[...] La gente si lamenta del fatto, ed è la cosa più inquietante, che molti interpreti del Gma [l'Amgot, n.d.r.] di origine siciliana provengano direttamente da ambienti mafiosi statunitensi. Sostiene inoltre che i nostri alti funzionari sono influenzati dalla nobiltà terriera, che è strettamente legata alla mafia sia per tradizione sia per ragioni di opportunità politica. La popolazione afferma che i nostri funzionari sono ingannati da interpreti e consiglieri corrotti, al punto che vi è il pericolo che possano diventare uno strumento inconsapevole in mano alla mafia. [...] Agli occhi dei siciliani, non solo il Gma non è in grado di affrontare la mafia, ma è arrivato addirittura al punto da esserne manipolato. Ecco perché, al giorno d’oggi, molti siciliani mettono a confronto il Gma e il fascismo. [...] Sotto il fascismo, la mafia non era stata interamente debellata, ma era almeno tenuta sotto controllo. Oggi, invece, cresce con una velocità allarmante e ha persino raggiunto una posizione di rilievo nel Gma.»

Il blocco agrario-mafioso aveva infatti salutato con favore l'arrivo degli anglo-americani perché risentito con il regime fascista, oltre che per la persecuzione di Mori, anche per la promulgazione della legge sulla colonizzazione del latifondo siciliano del 2 gennaio 1940, che li costringeva ad apportare migliorie produttive ai loro latifondi pena l’esproprio delle loro campagne.[7][106]

Il movimento separatista, il banditismo e le lotte contadine (1943-1950)

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Gli occupanti anglo-americani alimentarono le istanze autonomiste da sempre proprie delle élite agrarie, che sfociarono nella nascita del Movimento indipendentista siciliano (M.I.S.), la prima organizzazione politica nata dopo lo sbarco alleato (nonostante l'Amgot vietasse ogni attività di tipo politico) che mirava alla separazione della Sicilia dallo Stato italiano ed (almeno inizialmente) anche la sua annessione agli Stati Uniti d'America[6][22]. L'adesione di Cosa nostra al separatismo è dimostrata dalla partecipazione di Calò Vizzini al primo convegno regionale clandestino dei separatisti, avvenuto a Catania il 6 dicembre 1943: egli era uno dei tre principali leaders dell'ala agraria-conservatrice del movimento, insieme al barone Tasca e al deputato liberale Andrea Finocchiaro Aprile, tutti in odor di mafia.[22][89][107]

Infatti, in quei mesi convulsi, la Sicilia viveva una periodo di caos e sbandamento: il razionamento dei generi alimentari di prima necessità aveva prodotto un diffuso mercato nero ('ntrallazzu) praticato da improvvisati commercianti e speculatori.[9] I mafiosi installati dagli Alleati nelle amministrazioni locali si trovavano nelle condizioni ideali per controllare il movimento delle merci e dei mezzi di trasporto[9]. La fame e la povertà avevano inferocito i ceti meno abbienti e il banditismo aveva trovato nuova linfa, tanto che ogni comune della Sicilia occidentale aveva la sua banda e tutte si dotarono di armi pesanti abbandonate dalle truppe italo-tedesche in ritirata: estorsioni, rapine e sequestri di persona divennero endemici. Il bandito fu famigerato di quegli anni fu Salvatore Giuliano. Quella di Giuliano è la storia tipica di ogni bandito siciliano: ucciso nel '43 un carabiniere che lo aveva fermato con farina di contrabbando, si diede alla macchia e trovò la protezione e l'aiuto della mafia per formare la sua banda.[107]

Il governo dell'Amgot durò fino al febbraio del 1944, quando la Sicilia passò sotto l'amministrazione del Regno del Sud, guidato dal governo Badoglio, cui partecipavano tutti i partiti antifascisti aderenti al C.L.N. Fu deciso di istituire un Alto Commissariato per governare la Sicilia e alla sua guida fu posto Francesco Musotto, di tendenze filo-separatiste, che rimase in carica per quattro mesi, quando fu sostituito dal democristiano Salvatore Aldisio, che invece avviò una politica antisecessionista.[108] Alcuni dispacci segreti inviati al Segretario di Stato degli Stati Uniti il 21 e 27 novembre 1944 dal console americano a Palermo, Alfred T. Nester, dimostrano che Calogero Vizzini, attraverso il generale Giuseppe Castellano (lo stesso che firmò per l'Italia l'armistizio di Cassibile nel 1943), cercò di far sostituire Aldisio con Virgilio Nasi, più vicino alle posizioni separatiste, ma il progetto sfumò.[6][109] Infatti Aldisio perseguitò duramente il movimento separatista, che fu messo fuori legge e i suoi leaders principali (tra cui Finocchiaro Aprile) arrestati ed inviati al confino.[89][107]

Salvatore Giuliano

Nel maggio del ’44 il ministro dell’Agricoltura del governo Badoglio, il comunista calabrese Fausto Gullo, emanò una serie di decreti-legge che prevedevano la concessione delle terre incolte e malcoltivate alle cooperative di contadini ed anche una più equa divisione dei prodotti agricoli tra proprietario e contadino.[110] Ridotto il loro spazio politico dall'azione del governo e dall'iniziativa dei partiti democratici, i separatisti spalleggiati dagli agrari corsero ai ripari giocando nuovamente la carta della mafia: un episodio clamoroso che ebbe una triste risonanza nazionale fu l'attentato subìto il 16 settembre 1944 dal segretario regionale del P.C.I. Girolamo Li Causi, preso a pistolettate dagli uomini di Calò Vizzini per impedirgli di tenere un comizio nella piazza di Villalba.[28][111] Si cercò inoltre di strumentalizzare il malcontento della popolazione contro il governo per il carovita e la chiamata alle armi, che era sfociata nella strage di via Maqueda a Palermo (19 ottobre 1944), quando i soldati spararono sui manifestanti provocando 19 morti e 108 feriti. Fu deciso quindi di passare alla lotta armata con la creazione dell'E.V.I.S. (Esercito volontario per l'indipendenza siciliana), inizialmente guidato da Antonio Canepa, il quale, rimasto ucciso in un agguato dai contorni misteriosi, fu sostituito da Concetto Gallo (a detta di Calderone, anch'egli "uomo d'onore")[98][85][112] che, d'accordo con Finocchiaro Aprile e Lucio Tasca, decise di affidarsi al banditismo per condurre la guerriglia[22][107][113]. Fu agganciato il bandito Giuliano per coordinare le operazioni nella Sicilia occidentale (gli fu addirittura offerta la carica di "colonnello" del neocostituito esercito), che consistettero in diversi attacchi armati alle stazioni dei carabinieri di Bellolampo, Pioppo, e Montelepre, che furono occupate e i carabinieri uccisi senza pietà[107]. L'E.V.I.S. fu poi definitivamente sconfitto nella battaglia di San Mauro (29 dicembre 1945), nei pressi di Caltagirone, e perciò la causa separatista perse vigore a vantaggio della linea autonomista caldeggiata da Aldisio, che si concretizzò nel regio decreto del 15 maggio 1946, emanato dal re Umberto II, che riconosceva appunto l'autonomia speciale della Regione Siciliana[107].

Rimasto "orfano" della lotta separatista, il banditismo fu assoldato per reprimere le legittime istanze dei movimenti contadini, rappresentati dalla Federterra, che reclamavano l'applicazione dei decreti Gullo con la formazione di cooperative agricole, scioperi ed occupazioni pacifiche dei latifondi lasciati incolti[6][9][114]. Anche il bandito Giuliano attaccò le leghe contadine e l'offensiva culminò nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), contro i manifestanti socialisti e comunisti a Piana degli Albanesi (provincia di Palermo), in cui morirono 11 persone (otto adulti e tre bambini) e altre 27 rimasero ferite[107]. Dalle file del banditismo emerse anche la figura di Luciano Leggio (detto anche Liggio, a causa di un'errata trascrizione del cognome), la "primula rossa di Corleone", che avrà una rapida "carriera": da semplice scassapagghiaru assurgerà a figura mafiosa di primo piano trasformandosi in campiere e poi in gabellotto (il più giovane di tutta la Sicilia)[9] assoldato dagli agrari per reprimere le istanze contadine, come dimostrò con l'omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, ucciso e gettato in un dirupo il 10 marzo 1948.[115] Rizzotto è uno dei 39 sindacalisti barbaramente uccisi in Sicilia tra il 1945 e il 1958 che in quegli anni lottarono per la terra negata[9][114][116].

Abbandonato al suo destino il movimento separatista, i notabili mafiosi passarono ad appoggiare i liberali e i monarchici (che garantivano una maggiore protezione ai privilegi terrieri) alle elezioni politiche del 1946 e alle regionali del 1947 ma, alle elezioni politiche del 1948, confluirono in massa nella Democrazia Cristiana, che si apprestava a diventare il partito governativo[9][107]: «Dovevamo fermare i comunisti a qualsiasi costo. [...] Nell'immediato dopoguerra era meglio governare con i mafiosi piuttosto che consegnare il Paese ai comunisti di Stalin», dichiarò anni dopo in un'intervista Giuseppe Alessi, considerato il "padre nobile" della Democrazia Cristiana[16][117]. Perciò la manovalanza del banditismo divenne inutile e si provvide subito ad eliminarla: una dopo l'altra, le bande si sfaldarono perché i capi furono trovati misteriosamente uccisi, oppure ammazzati in conflitti a fuoco o arrestati a seguito di "soffiate".[9] Anche la banda Giuliano fu smantellata dagli arresti operati dal Comando forze repressione banditismo, voluto dal ministro dell'Interno Mario Scelba e guidato dal colonnello dei carabinieri Ugo Luca, che non esitò a servirsi delle soffiate di elementi mafiosi per catturare i banditi: lo stesso Giuliano fu ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta (segretamente diventato anch'egli un informatore del colonnello Luca) ma la versione ufficiale data dalle autorità fu che il bandito cadde in un conflitto a fuoco con i carabinieri, fatto in seguito smentito perché un'inchiesta giornalistica ne dimostrò la falsità[6][107]. Rimasto latitante sotto la protezione degli uomini del colonnello Luca, Pisciotta venne poi arrestato ed accusò apertamente alcuni deputati monarchici e democristiani di essere i mandanti della strage di Portella della Ginestra (probabilmente per depistare gli inquirenti dalle sue personali responsabilità nel massacro) ma morì a causa di una tazzina di caffè avvelenato nel carcere dell'Ucciardone nel 1954[9][107].

Il "miracolo" economico

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La riforma agraria e l'infiltrazione negli enti pubblici

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Nel 1950 l'Assemblea regionale siciliana varò la legge per la riforma agraria, che limitava il diritto alla proprietà terriera a soli 200 ettari ed obbligava i proprietari terrieri ad effettuare opere di bonifica e trasformazione, pena l'esproprio.[114] L'applicazione della legge però procedette a rilento e soltanto nel 1955 si assegnarono ai contadini più poveri le prime terre espropriate. Si trattava quasi sempre dei terreni peggiori che non si prestavano a nessuna trasformazione perché, nel frattempo, gli agrari avevano avuto modo di vendere la parte migliore dei loro fondi, spesso attraverso la mediazione mafiosa[114]. L'ente regionale istituito per occuparsene, l'E.R.A.S. (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia), si dimostrò un carrozzone clientelare e parassitario che non ostacolò questa pratica.[6][114][118]

Tuttavia il ceto agrario subì un duro colpo con questa riforma, cui cercò di reagire mobilitando i migliori avvocati siciliani (si parlò di «offensiva della carta bollata») oppure, come al solito, facendo intimidire ed uccidere dalla mafia i sindacalisti che davano voce alle istanze del movimento contadino, come avvenne con l'omicidio ai danni di Salvatore Carnevale, avvenuto a Sciara nel 1955.[114][118]

Come conseguenza diretta, la riforma agraria comportò lo smembramento della grande proprietà terriera (fino ad allora importantissima per gli interessi dei mafiosi) e la riduzione del peso economico dell'agricoltura a favore di altri settori come il commercio o il terziario del settore pubblico.[119] In questo periodo l'amministrazione pubblica in Sicilia divenne l'ente più importante in fatto di economia: dal 1950 al 1953 i dipendenti regionali passarono da circa 800 ad oltre 1 350[28]. Si moltiplicarono gli enti regionali e i consorzi di bonifica che avrebbero dovuto dare impulso alla rinascita economica della Sicilia (per citare i più noti, E.S.E., A.S.T., So.Fi.S., E.M.S. e tanti altri) ma, nella maggioranza dei casi, si rivelarono dei carrozzoni clientelari (al pari dell'E.R.A.S.), poiché dal 1946 al 1963 le assunzioni avvennero maggiormente per chiamata diretta, non per concorso, quindi non per merito ma per raccomandazione, amicizia o favore elettorale.[119][120] Perciò l'inserimento nei vari livelli delle amministrazioni locali e degli enti regionali divenne il nuovo terreno di conquista privilegiato per Cosa nostra al posto della grande proprietà terriera: si stima che negli anni '60, l'amministrazione comunale di Trapani contasse come dipendenti 15 parenti di mafiosi, quella di Caltanissetta 16, quella di Agrigento 20.[119]

In quegli anni, Cosa nostra condizionò anche la formazione dei governi regionali. Dal 1949 al 1955 si alternarono due giunte di centro-destra presiedute dal democristiano Franco Restivo (appoggiato elettoralmente dalle cosche, secondo alcune testimonianze)[9][87]. Nel 1954, con l'affermarsi a livello nazionale della corrente democristiana Iniziativa democratica di Amintore Fanfani, i mafiosi passarono ad appoggiare i «Giovani Turchi» fanfaniani rappresentati a livello locale da Giuseppe La Loggia (Agrigento), Antonino Drago (Catania) e Giovanni Gioia (Palermo).[28][121] In particolare quest'ultimo, eletto deputato nel 1958, inaugurò la cosiddetta "strategia delle tessere", consistente nella distribuzione di tessere del partito a parenti, amici e, persino, ai defunti, che gli consentirono di aprire solo a Palermo ben 59 sezioni democristiane.[28] Egli inoltre fu l'artefice del passaggio di diversi esponenti monarchici e liberali tra le file dei fanfaniani e, con essi, ovviamente arrivò anche la mafia. Il sindaco democristiano di Camporeale, Pasquale Almerico, che si oppose a questa nuova alleanza, fu ucciso senza pietà nel 1957.[6][121]

Nel 1958, Cosa nostra si rivelò fondamentale nella formazione del governo regionale presieduto da Silvio Milazzo, che era appoggiato da un'inedita coalizione tra comunisti, democristiani e missini in aperta opposizione ai fanfaniani, tanto da definire questa convergenza di forze politiche opposte come «milazzismo»[10][120][122]. Regista occulto di quest'operazione fu Paolino Bontate, ufficialmente grossista di agrumi ma in realtà capocosca della borgata palermitana di Villagrazia, considerato il trait d'union tra monarchici e democristiani[10]. Una volta ottenuti i suoi scopi, la mafia montò ad arte uno scandalo ai danni del governo Milazzo, causandone la rapida caduta[122].

Nel 1961, all'infelice esperienza del milazzismo, seguì un governo regionale di centro-sinistra (il primo della storia repubblicana) guidato dal democristiano Giuseppe D'Angelo, che intraprese subito una serrata battaglia per la moralizzazione della vita pubblica contro quei potentati economici cresciuti grazie ai legami con la mafia.[36][121] Tuttavia D'Angelo non poté portare a termine questi propositi perché fu costretto alle dimissioni e nelle elezioni successive perse addirittura il suo seggio all'Assemblea regionale siciliana.[116] Secondo Antonino Calderone, vi era addirittura il progetto di assassinare D'Angelo ma non se ne fece nulla perché all'interno di Cosa nostra la proposta di morte non fu accolta all'unanimità.[85][112][123]

L'infiltrazione nell'imprenditoria e i "sacchi" edilizi

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Lo stesso argomento in dettaglio: Sacco di Palermo.
Vito Ciancimino durante una seduta del consiglio comunale di Palermo.

L'ampliamento dell'amministrazione pubblica fece sì che uno stuolo di dipendenti regionali si trasferisse da ogni parte dell'isola a Palermo (sede degli uffici del nuovo governo regionale), la cui popolazione crebbe da 350.000 a 665.000 abitanti tra il 1959 e il 1963[121]. La città portava ancora i segni dei bombardamenti del 1943, ed anche 40 000 dei suoi abitanti, che avevano avuto la casa distrutta, richiedevano nuove abitazioni.[28][119] Il nuovo piano di ricostruzione edilizia si rivelò però un fallimento perché all'interesse pubblico furono anteposti gli appetiti affaristici di numerosi «professori universitari, industriali, proprietari terrieri, giovani avvocati» seguaci del centro-destra di Restivo che, annidati all'interno dell'amministrazione comunale, s'accordarono per la distruzione sistematica di parchi, giardini e ville (avvenuta attraverso "provvidenziali" demolizioni con esplosivo o incendi dolosi) necessaria per lasciare il posto alla costruzione di quartieri residenziali nuovi di zecca[124][125]. Questi speculatori senza scrupoli furono bollati come moderni lanzichenecchi in un coraggioso articolo apparso sul quotidiano L'Ora nel giugno '61, che appunto parlò di «sacco di Palermo»[125]. Ma nel frattempo entrarono in scena due nuovi protagonisti, i fanfaniani Salvo Lima e Vito Ciancimino, "delfini" del deputato Gioia[28]. Entrambi erano legati a noti esponenti mafiosi (Lima in particolare era figlio di un "uomo d'onore" finito nelle maglie della repressione anti-mafia di epoca fascista)[126] e, mentre a livello regionale si consumava l'effimera parabola del milazzismo, diedero la scalata alle principali cariche dell'amministrazione locale, collegandosi anche al mondo degli affari e delle banche.[121][124] Con loro, il «sacco di Palermo» sarebbe entrato in una nuova e più spregiudicata fase: un'inchiesta prefettizia voluta dal governo D'Angelo[116][121] accertò che, durante il periodo in cui prima Lima e poi Ciancimino furono assessori ai lavori pubblici del comune di Palermo, il nuovo piano regolatore cittadino sembrò andare in porto nel 1956 e nel 1959 ma furono apportati centinaia di emendamenti, in accoglimento alle istanze di privati cittadini (molti dei quali in realtà erano uomini politici e mafiosi, a cui si aggiungevano parenti e associati)[28], che permisero in tempi record l'abbattimento di numerose residenze private in stile Liberty di inestimabile valore artistico ed architettonico da sostituire con vertiginosi condomini multipiano (l'urbanista Bruno Zevi definì una di queste demolizioni «un atto di banditismo di nuovo tipo»)[127]. In particolare, l'inchiesta appurò che nel periodo in cui Ciancimino fu assessore (1959-64), delle 4 000 licenze edilizie rilasciate, 1 600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia[119]. L'imprenditore che più incarnò la situazione di disordine edilizio che viveva Palermo in quegli anni fu Francesco Vassallo, il quale fece una rapidissima carriera nonostante le chiare origini mafiose, riuscendo ad ottenere prestiti agevolati dalle banche, appalti di opere pubbliche e contratti vantaggiosi conclusi con l'amministrazione regionale[121]. Nonostante risultasse che costruisse edifici che violavano palesemente le clausole dei progetti e delle licenze edilizie, questo spregiudicato imprenditore rimase sempre impunito[119][128].

I giornali favoleggiarono di una presunta società VA.LI.GIO. (Vassallo-Lima-Gioia) che dominava all'interno del comune di Palermo e decideva in esclusiva a chi si dovessero assegnare gli appalti pubblici o le licenze edilizie.[116][121] Ma, al contrario della convinzione comune, il sacco edilizio di Palermo vide in realtà protagoniste imprese non siciliane, tra cui la Società Generale Immobiliare (con capitale vaticano) e le cooperative settentrionali.[129] Infatti analoghe speculazioni si ebbero negli stessi anni nello sviluppo edilizio di altre grandi città come Roma, Milano e Napoli, con la sola differenza che a Palermo l'affarismo politico-imprenditoriale si sommò a quello mafioso.[53] Il ruolo delle "famiglie" si sarebbe limitato in diversi casi alla intermediazione tra i proprietari dei terreni edificabili e le imprese "forestiere" oppure all'imposizione di manodopera o del materiale di costruzione.[129] In quegli anni infatti si moltiplicarono le ditte attive nel trasporto e nella fornitura di materiale per l'edilizia, che fecero la fortuna di boss mafiosi del calibro di Angelo La Barbera, Rosario Mancino, Antonino Sorci e Pietro Torretta, i quali si imposero sul mercato utilizzando, come al solito, metodi violenti ed intimidatori.[130]

All'ombra della corrente fanfaniana si affermarono inoltre due potentati che avrebbero influenzato la vita economica siciliana per oltre un trentennio: i cugini Antonino ed Ignazio Salvo di Salemi e il gruppo Costanzo di Catania[10]. Entrambi appoggiarono il milazzismo anche in ragione delle leggi approvate a sostegno dell’imprenditoria[10]. I Salvo appartenevano ad una famiglia mafiosa da generazioni e proprio il loro connubio con Paolino Bontate e con il figlio Stefano determinò la caduta del governo Milazzo ed, in cambio, i governi regionali che subentrarono assegnarono alla società dei due cugini la riscossione del 40% delle tasse siciliane con un aggio che si aggirava tra il 7% e il 10%, il più alto percepito in tutta Italia[10][122]. Furono tuttavia duramente avversati dal governo di Giuseppe D'Angelo e perciò ne causarono la caduta fino ad estrometterlo del tutto dalla vita politica[116][122]. Invece i Costanzo, attivi nel settore delle costruzioni e delle commesse pubbliche, si legarono indissolubilmente a Luigi Saitta prima e ai nipoti Giuseppe e Antonino Calderone poi, boss mafiosi catanesi che divennero i loro factotum incaricati di tenere le relazioni con le "famiglie" mafiose dei luoghi in cui svolgevano lavori, con cui concordavano l'importo delle tangenti da pagare e i nomi delle ditte "amiche" a cui assegnare i sub-appalti e le forniture di materiale[10][85][131]. La mafia catanese era relativamente giovane (nella sua testimonianza, Antonino Calderone affermò che essa fu fondata da un altro suo zio durante gli anni del "prefetto di ferro" Mori)[85][112] ma rimasta fino al quel momento in sordina ed ora approfittava della favorevole congiuntura offerta dal "miracolo" economico e dall'industrializzazione, che fecero di Catania la "Milano del sud"[10]. Erano gli anni in cui Enrico Mattei, presidente dell'E.N.I., scoprì nella Sicilia meridionale vasti giacimenti petroliferi, che portarono all'apertura dello stabilimento Anic a Gela con relativo indotto[68][132]. Perciò i gruppi mafiosi della Sicilia occidentale come i Bontate, i Citarda e i Salvo iniziarono ad investire massicciamente in quella parte dell'isola, dove trovarono dei validi partners proprio nei Calderone-Saitta, rimasti fino ad allora confinati in disparte[85][133]. Nel 1962 lo stesso Mattei rimase ucciso a causa di un misterioso sabotaggio del suo aereo privato dopo essere partito dall'aeroporto di Catania, probabilmente organizzato dal Bontate e da Giuseppe Di Cristina (personaggio a metà tra «colletto bianco» e boss mafioso che controllava l'asse strategico Riesi-Gela)[6] su richiesta di Cosa nostra italo-americana (forse su ispirazione dei petrolieri statunitensi, preoccupati dalla crescente concorrenza di Mattei sul mercato internazionale del petrolio).[132] Ad attirare il presidente dell'E.N.I. nel tranello mafioso (incosapevolmente, secondo Buscetta) sarebbe stato uno dei suoi uomini più fidati, il fanfaniano Graziano Verzotto, che era anche «compare d'anello» del boss Di Cristina.[132]

L'organizzazione del contrabbando e la nascita della "Commissione"

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Lo stesso argomento in dettaglio: Commissione provinciale.
La facciata del Grand Hotel et des Palmes, dove nel 1957 sarebbe avvenuto il grande summit tra Cosa nostra statunitense e mafia siciliana.

Dal 1946 in poi, oltre cento mafiosi italo-americani furono rimpatriati in Italia perché gli Stati Uniti li dichiararono elementi "indesiderabili"[134][135]. Tra di essi vi erano boss mafiosi di rilievo come Charles "Lucky" Luciano, Joe Adonis e Frank Coppola, i quali si mantennero lontani dalla Sicilia e scelsero di stabilirsi sul "continente": Luciano a Napoli, Adonis a Milano e Coppola a Pomezia, nei pressi di Roma.[135][136] Tuttavia continuarono a mantenere contatti con l'organizzazione siciliana e se ne servirono per organizzare in grande stile il contrabbando di sigarette ed eroina. In particolare la droga era destinata ai loro "colleghi" d'oltreoceano, dove il "vizio" era particolarmente diffuso negli slums delle grandi metropoli come New York e Chicago.[119][137] Viceversa, i gangster italo-americani esiliati in Italia erano per i mafiosi siciliani la chiave d'accesso per il mercato statunitense e li invogliava ad intraprendere questo losco "commercio" la blanda legislazione italiana in fatto di stupefacenti, che prevedeva pene irrisorie per i trasgressori poiché all'epoca l'uso di droga in Italia era limitato a gruppi sociali molto ristretti e quindi quasi nessuno se ne curava.[17][28][136]

Il contrabbando nel Mediterraneo era però appannaggio esclusivo delle organizzazioni corso-marsigliesi, cui i siciliani furono costretti ad interfacciarsi per rifornirsi[138]. Negli States la droga giungeva spesso occultata nei bauli di ignari emigranti imbarcati su transatlantici di linea oppure attraverso fidati corrieri reclutati dall'organizzazione[136][138]. Nel giro di pochi anni, alcuni mafiosi siciliani si trasformarono in "turisti" della droga: boss come Angelo La Barbera, Rosario Mancino, Gaetano Badalamenti, Tommaso Buscetta e Salvatore "Cicchiteddu" Greco furono notati in alberghi costosi in giro per l'Italia e la Costa Azzurra, dove potevano agevolmente contattare i contrabbandieri marsigliesi per concordare i movimenti della "merce"[133]. Il cugino omonimo di "Cicchiteddu", «Totò l'Ingegnere», allestì una flotta contrabbandiera di pescherecci e fu segnalata la sua presenza sotto falso nome in diverse città marittime, tra cui Marsiglia e Tangeri, da dove si manteneva in corrispondenza con Coppola.[130] La Barbera e Mancino invece risultarono in costante contatto con Adonis a Milano e nel 1960 si spinsero fino agli Stati Uniti via Messico, dove cercarono di piazzare della droga ma senza successo perché furono segnalati dall'Interpol ed espulsi[87][130][138]. Un altro "turista", il capo-mafia palermitano Calcedonio Di Pisa, fu beccato da un'agente infiltrato del Narcotic Bureau mentre cercava di vendergli una partita di eroina.[139]

Nel 1952 avvenne uno dei primi sequestri di droga in terra siciliana: ad Alcamo fu trovato un baule carico di 6 kg di eroina destinato a Frank Coppola, che finì in manette e fu condannato a soli due anni di carcere[82][136][138]. Lo stesso Luciano risultò in contatto con alcuni corrieri della droga arrestati in Italia ma non si riuscirono mai a trovare prove per arrestarlo.[133][136][138][140]

Dal 10 al 14 ottobre 1957 si tennero una serie di incontri presso il Grand Hotel et des Palmes (il più lussuoso ed esclusivo albergo di Palermo) tra mafiosi italo-americani e siciliani (Joseph Bonanno, Gaspare Magaddino, Carmine Galante, Frank Garofalo, Lucky Luciano, Cesare Manzella, Giuseppe Genco Russo ed altri)[138]. Le forze dell'ordine si accorsero del meeting ma non intervennero, limitandosi ad osservare il viavai dei partecipanti, molti dei quali non furono riconosciuti (a differenza di quello che fecero il mese successivo gli inquirenti statunitensi che bloccarono ed arrestarono diversi boss mafiosi italo-americani che si trovavano riuniti in una villa ad Apalachin, nello Stato di New York).[6][140][141] Si sospettò che lo scopo degli incontri fosse quello di affidare direttamente ai siciliani la gestione del traffico degli stupefacenti perché la rivoluzione castrista a Cuba (1956-57) aveva privato i corrieri di quell'importante base di smistamento per l'eroina destinata agli U.S.A.[130][138], dove, allo stesso tempo, le "famiglie" italo-americane si trovavano sotto la pressione investigativa del Narcotic Bureau, che era riuscito ad incriminare e a far condannare centinaia di boss e gregari per imputazioni connesse alla droga[28][141]. Alcuni sostennero che alle riunioni avrebbe partecipato anche l'uomo d'affari siculo-statunitense Michele Sindona (allora agli esordi), che si sarebbe occupato di curare la parte finanziaria del nuovo accordo commerciale.[142][143] È certo però che, in quel periodo, presso l'Hotel des Palmes (già quartier generale del colonnello Charles Poletti durante l'occupazione alleata nel '43) alloggiavano abitualmente, oltre a Lucky Luciano e Joseph Bonanno, anche i cugini Salvo e il dirigente democristiano Verzotto (già «compare d'anello» del boss Di Cristina e in affari con Sindona), che, tra i saloni dell'albergo, architettarono l'intrigo politico che provocò la caduta del governo Milazzo.[6][132][144]

Nella sua testimonianza resa parecchi anni più tardi, Buscetta negò sempre che lui e i suoi amici fossero coinvolti in attività di narcotraffico e si giustificò che i frequenti viaggi avvenivano per andare a giocare al casinò o per avventure galanti[87]. Anche del summit dell'Hotel des Palmes diede una versione diversa: affermò che la droga non c'entrava nulla con quegli incontri (a cui lui stesso ammise di aver partecipato) ma erano soltanto un bentornato da parte degli "amici" siciliani al boss italo-statunitense Joseph Bonanno, che mancava da tanti anni dalla Sicilia[28][145]. L'incontro conviviale però non sarebbe avvenuto all'Hotel des Palmes (dove semplicemente Bonanno alloggiava e riceveva persone venute a salutarlo) ma in un ristorante di Mondello, cui parteciparono, a detta di Buscetta, tutti i pezzi grossi dell'epoca: La Barbera, Mancino, "Cicchiteddu" Greco, Badalamenti, Di Pisa, Cesare Manzella, Totò Minore e Vincenzo Rimi.[87] Sempre secondo Buscetta, Bonanno si appartò a parlare con lui, Badalamenti e "Cicchiteddu" Greco (che gli erano stati "raccomandati" da Luciano ed Adonis)[146] e gli propose di seguire l'esempio dei mafiosi italo-americani, cioè fondare una "Commissione" che mettesse pace tra le varie "famiglie" ed emettesse in esclusiva sentenze di morte.[141] Buscetta, Badalamenti e "Cicchiteddu" si adoperarono in prima persona per realizzare il progetto, che fu apparentemente accettato da tutte le "famiglie"[28]. Le nuove regole prevedevano che facessero parte del nuovo organo di governo soltanto mafiosi di basso rango (esclusi quindi i capifamiglia), i quali avrebbero rappresentato un "mandamento", cioè tre o quattro "famiglie" contigue territorialmente[28][87]. Nota lo storico John Dickie che la versione di Buscetta nasconde la verità: in realtà i personaggi indicati da Buscetta come presenti al pranzo di Mondello erano tutti astri nascenti nel mercato della droga di respiro internazionale (come dimostrato dai loro frequenti viaggi) e la "Commissione" proposta da Bonanno ben si adattava a dare loro più spazio e potere rispetto ai boss di vecchio stampo legati più alla dimensione locale che ai traffici transnazionali.[28]

L'attenzione dell'opinione pubblica sul problema mafioso

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Lo stesso argomento in dettaglio: Commissione parlamentare antimafia.

Gli anni del dopoguerra furono caratterizzati dall'atteggiamento di minimizzazione o addirittura di negazionismo sul fenomeno mafioso da parte di alcuni esponenti politici di area governativa (come si rileva, ad esempio, da alcune esternazioni dell'allora ministro dell'Interno Mario Scelba)[9][147]. Questa linea fu anche seguita dalla Chiesa cattolica siciliana, come emerge dalle dichiarazioni dell'arcivescovo di Palermo, cardinale Ernesto Ruffini, che, in una lettera pastorale del 1964, indicò il romanzo-capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo, il gran parlare di mafia e l'attivista Danilo Dolci come le tre cause che maggiormente contribuivano a disonorare la Sicilia (il nipote dell'arcivescovo, il futuro ministro democristiano Attilio Ruffini, godrà dell'appoggio elettorale delle cosche).[28][148][149][150] Non mancarono inoltre episodi di colpevole connivenza tra Chiesa e mafia, come dimostra uno dei casi di cronaca nera più seguiti di quegli anni, il processo ai quattro frati cappuccini di Mazzarino (piccolo comune nel nisseno) condannati perché in combutta con una cosca in alcune vicende di omicidi ed estorsioni[151] (per il cardinale Ruffini invece le accuse ai frati erano soltanto «una montatura social-comunista»).[6][129][149] Più ambigua invece la posizione della magistratura, che oscillava dalle rassicuranti dichiarazioni dei procuratori generali di Palermo che proclamavano l'estinzione della delinquenza mafiosa[131] alle discutibili opinioni del giudice di Cassazione (con la passione per la scrittura) Giuseppe Guido Lo Schiavo (assurto al ruolo di insigne «mafiologo» perché si era distinto nella repressione anti-mafia durante gli anni del "prefetto di ferro" Cesare Mori), il quale, partendo dall'assunto che nell'immediato dopoguerra la mafia aveva collaborato con le autorità nella distruzione del banditismo, argomentò che essa svolgeva una funzione ausiliaria e non antagonista rispetto allo Stato e quindi auspicò che l'organizzazione indirizzasse il suo operato «sulla via del rispetto delle leggi [...] e del miglioramento sociale».[152][153][10]

Il dibattito pubblico sul fenomeno fu perciò monopolizzato dalle forze politiche di sinistra, in particolare dal P.C.I. e dal P.S.I., che avevano visto numerosi loro sindacalisti cadere per mano mafiosa nella lotta per la riforma agraria e quindi richiedevano a gran voce, almeno dal 1949, l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia che mettesse finalmente a nudo le collusioni con la classe dirigente (in primis con la Democrazia Cristiana), rifacendosi all'esperienza statunitense della Commissione Kefauver.[153] Celebri infatti furono le denunce sui rapporti tra mafia e potere portate all'attenzione dell'opinione pubblica dalle interrogazioni parlamentari del deputato comunista Girolamo Li Causi[154][155] oppure dagli scritti e dagli articoli firmati da intellettuali di sinistra del calibro di Leonardo Sciascia, Carlo Levi, Danilo Dolci, Michele Pantaleone e Giuseppe Fava, che ebbero il merito principale di sollevare l'attenzione sul problema[28][98].

Uno dei mezzi utilizzati dal P.C.I. per condurre la sua campagna di stampa anti-mafia fu un quotidiano di sua proprietà, L'Ora di Palermo.[156] Nel 1958 L'Ora pubblicò congiuntamente al quotidiano Paese Sera di Roma (anch'esso di proprietà del P.C.I.) un'inchiesta a puntate sul fenomeno mafioso dal titolo Tutto sulla mafia firmata dai giornalisti Felice Chilanti, Nino Sorgi (avvocato de L'Ora che si firmava con lo pseudonimo di Castrense Dadò), Michele Pantaleone, Mario Farinella, Enzo Lucchi, Mino Bonsangue ed Enzo Perrone: si trattò della prima indagine giornalistica sulla mafia mai pubblicata da un giornale italiano, che venne portata a termine nonostante l'attentato dinamitardo del 19 ottobre del 1958 che distrusse per ritorsione parte della redazione e della tipografia de L'Ora[157]. A seguito di questo grave fatto, il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat dichiarò in Parlamento: «Ci voleva l'attentato all'Ora per scoprire che in Sicilia c'è la mafia»[28]. L'attentato fu inoltre all'origine della proposta di legge presentata dai senatori Ferruccio Parri e Simone Gatto per l'istituzione di una Commissione parlamentare antimafia.[68][158][159] Il dibattito divenne sempre più infuocato a causa dello scandalo politico (che ebbe un'ampia eco mediatica perchè finì al centro di una popolare trasmissione del nuovo mezzo televisivo, Tribuna politica) determinato dalla scelta della Democrazia Cristiana di candidare alle elezioni amministrative del 1960 il noto capo-mafia Giuseppe Genco Russo: un imbarazzato Aldo Moro (all'epoca segretario nazionale della D.C.) si giustificò davanti le telecamere che la direzione del partito non aveva la competenza per esaminare tutte le liste di candidati presentate negli ottomila comuni dove si andava al voto[9]. Ma tutte queste circostanze, insieme ai 211 omicidi commessi nella sola Palermo tra il 1951 e il 1959[9], non fecero abbastanza notizia, a giudicare dal fatto che un sondaggio nazionale del 1962 dimostrò che ancora un italiano su tre non sapeva cosa fosse la mafia mentre un altro terzo l'aveva soltanto sentita nominare[53]. Poi, il 31 marzo dello stesso anno, la Rai mandò in onda il primo reportage televisivo sul problema, «Rapporto da Corleone» realizzato dal giornalista Gianni Bisiach per il programma RT-Rotocalco Televisivo di Enzo Biagi, che svelò al grande pubblico il potere della mafia (in questo caso, nella persona del feroce boss Luciano Liggio) basato sulla paura e sull'omertà che teneva in scacco il piccolo comune di Corleone, nella Sicilia più interna[160][161]. Soltanto nel dicembre successivo, a seguito della favorevole congiuntura politica offerta dall'avvento dei governi di centro-sinistra a livello regionale e nazionale, fu approvato il disegno di legge che istituiva la Commissione antimafia (legge n. 1720/62), la quale entrò in funzione soltanto nel febbraio 1963, sotto la presidenza del deputato Paolo Rossi, ma non tenne alcuna seduta a causa dell'avvenuto scioglimento delle Camere[121][159].

La «prima guerra di mafia» e l’«occasione mancata»

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Lo stesso argomento in dettaglio: Prima guerra di mafia e Strage di Ciaculli.

A Palermo le tensioni latenti riguardo agli affari illeciti nei settori dell'edilizia e del contrabbando riesplosero con l'uccisione di uno dei "turisti" della droga, Calcedonio Di Pisa (26 dicembre 1962), che ruppe una fragile tregua raggiunta tra i principali mafiosi palermitani del tempo[130][162]. L'omicidio fu attribuito ai fratelli Angelo e Salvatore La Barbera contro cui si scatenò la caccia all'uomo da parte della "Commissione" con una lunga catena di omicidi, sparatorie ed autobombe (un'arma inconsueta per quei tempi perché mai utilizzata prima d'allora sul territorio nazionale)[163], che culminarono nella strage di Ciaculli (30 giugno 1963), in cui morirono sette uomini delle forze dell'ordine dilaniati dall'esplosione dell'ennesima Giulietta imbottita di esplosivo che stavano provando a disinnescare e che era probabilmente destinata al mafioso rivale "Cicchiteddu" Greco (capo del "mandamento" di quella zona).[130][164] I giornali paragonarono Palermo alla Chicago degli anni '30 e definirono il conflitto come "prima guerra di mafia"[28], tentando di presentarla come una resa dei conti tra "nuova" mafia dell'edilizia e del contrabbando (rappresentata dai La Barbera) e "vecchia" mafia agraria (legata a "Cicchiteddu" Greco): secondo gli storici John Dickie e Salvatore Lupo, questa rappresentazione non rispecchia la realtà poiché risulta la circostanza che nel campo dei La Barbera militasse un boss mafioso "vecchio stampo" come Pietro Torretta mentre uno degli alleati di "Cicchiteddu" risultò essere il corleonese Luciano Leggio, indicato come mafioso di nuova generazione[10][28].

Nella sua testimonianza, Buscetta liquidò invece la faccenda come una bega nata a causa di un matrimonio riparatore avversato dalla "famiglia" del Di Pisa, in cui si inserì furbescamente Michele Cavataio (capo-mafia della borgata dell'Acquasanta) in rappresentanza di una coalizione di vecchi boss spodestati dal potere crescente della "Commissione": la strategia di Cavataio e dei suoi alleati consisteva nell'uccidere gli avversari e presentare gli omicidi come responsabilità di Angelo La Barbera e dello stesso Buscetta per spaccare dall'interno il nuovo organo di governo mafioso.[87] Lo storico Dickie afferma che, con questa versione, Buscetta intendeva occultare le sue personali responsabilità nella guerra e il ruolo cruciale assunto nella vicenda dal traffico di stupefacenti.[28]

La strage di Ciaculli provocò molto scalpore nell'opinione pubblica italiana e il governo, nella persona del ministro dell'Interno Mariano Rumor, decise di prendere seri provvedimenti[165]: nei mesi successivi vi furono circa duemila arresti di sospetti mafiosi nella provincia di Palermo e, per queste ragioni, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Antonino Calderone, la "Commissione" di Cosa nostra venne sciolta e molte cosche mafiose decisero di sospendere le proprie attività illecite, disperdendosi[112]. Alcuni boss riuscirono a fuggire all'estero, dove fondarono veri e propri imperi commerciali fondati sul traffico di droga: Buscetta andò negli Stati Uniti e poi in Brasile, il trapanese Totò Minore pure negli States, mentre i due cugini di Ciaculli, "Cicchiteddu" Greco e «Totò l'Ingegnere», si trasferirono in Venezuela (dove se ne persero le tracce)[10] insieme al cognato Antonino Salamone (capo-mafia di San Giuseppe Jato) e ai Cuntrera-Caruana di Siculiana[130][141]. Tuttavia, le “famiglie” più avvedute (in particolare quelle di Corleone, di Santa Maria di Gesù e di Cinisi) avevano tenuto in vita le strutture essenziali, mentre l’organizzazione continuava a vivere nelle province di Trapani, Caltanissetta, Catania ed Enna, rimaste di fatto non toccate dalle indagini[166]. Nella provincia di Agrigento, invece, il discusso omicidio del commissario di P.S. Cataldo Tandoy, avvenuto nella città di Agrigento nel 1960 e ricondotto in un primo momento ad una pista passionale con implicazioni politiche, aveva portato ad un processo celebrato a Lecce per legittima suspicione, che si concluse nel 1968 con la condanna all'ergastolo dei vertici della cosca mafiosa di Raffadali, piccolo centro dell'entroterra agrigentino.[114][167][168]

A causa dello scandalo provocato dalla strage di Ciaculli, la Commissione parlamentare antimafia, presieduta dal senatore ed ex magistrato Donato Pafundi, iniziava finalmente i suoi lavori dopo una prima fase di stasi, raccogliendo notizie e dati necessari alla valutazione del fenomeno mafioso, proponendo misure di prevenzione e svolgendo indagini su casi particolari. Accogliendo le richieste della Commissione antimafia, il Parlamento approvò la famosa legge n. 575 del 1965, la c.d. legge antimafia, che introdusse la misura del soggiorno obbligato nei confronti degli «indiziati di appartenere ad associazioni mafiose»[169], partendo dal presupposto che «il mafioso fuori dal proprio ambiente diventa pressoché innocuo»[131], ma questa legge si rivelò un boomerang: inviati al soggiorno obbligato spesso in comuni dell'Italia settentrionale, i boss andarono ad inquinare zone ancora estranee al fenomeno mafioso.[28]

Nel 1968, al termine della legislatura, il presidente Pafundi concluse i lavori della Commissione con una striminzita relazione, accolta dalle polemiche[28][169]. Perciò Michele Pantaleone ed altri intellettuali di sinistra parlarono della Commissione come di un'«occasione mancata»[121]. Riconfermata nelle successive due legislature, la Commissione antimafia concluderà le sue indagini soltanto nel 1976, dopo numerosi dibattiti, polemiche e il cambio di ben due presidenti in disaccordo tra loro (dopo Pafundi, il deputato Francesco Cattanei e, poi, il senatore Luigi Carraro, tutti democristiani)[170][169]. La relazione finale di maggioranza redatta dal senatore Carraro venne giudicata inadeguata e riduttiva rispetto al tema delle complicità politiche ed istituzionali della mafia e perciò i membri d'opposizione della Commissione produssero ben due relazioni di minoranza, una di area comunista firmata, tra gli altri, dai deputati Pio La Torre e Cesare Terranova, l'altra di schieramento missino dai deputati Angelo Nicosia, Beppe Niccolai e dal senatore Giorgio Pisanò.[171]

La disfatta giudiziaria

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Lo stesso argomento in dettaglio: Processo dei 117.

Durante gli anni dell'«occasione mancata», si svolsero alcuni processi contro i protagonisti dei conflitti mafiosi di quegli anni arrestati in seguito alla strage di Ciaculli, che si svolsero in località fuori dalla Sicilia per legittima suspicione: un centinaio di mafiosi vennero giudicati in un processo svoltosi a Catanzaro nel 1968 (La Barbera Angelo + 116, il famoso "processo dei 117"); in dicembre venne pronunciata la sentenza ma solo i boss La Barbera e Torretta ebbero condanne pesanti mentre il resto degli imputati furono assolti per insufficienza di prove o condannati a pene brevi per il reato di associazione a delinquere e, siccome avevano aspettato il processo in stato di detenzione, furono rilasciati immediatamente[28][166].

Un altro processo di rilievo si svolse a Bari nel 1969 contro Luciano Liggio e i suoi accoliti, protagonisti della faida mafiosa avvenuta a Corleone alla fine degli anni cinquanta (Leggio Luciano + 63): gli imputati vennero tutti assolti per insufficienza di prove e un rapporto della Commissione parlamentare antimafia criticò aspramente il verdetto poiché risultò che la giuria avesse subìto minacce ed intimidazioni[115][166][172]. Dopo l'assoluzione di Bari, la Commissione antimafia tornò ad occuparsi di Liggio a causa della sua clamorosa fuga da una clinica romana, dove era riuscito a farsi operare nonostante pendesse su di lui una richiesta di arresto.[115][172]

Un processo che fece clamore in quegli anni fu inoltre quello celebratosi a Perugia nei confronti di Vincenzo e Filippo Rimi (boss mafiosi di Alcamo, cognato e nipote di Gaetano Badalamenti) per l'assassinio di Salvatore Lupo Leale, avvenuto il 30 gennaio 1962 nel contesto di una faida mafiosa, a seguito delle accuse della coraggiosa madre Serafina Battaglia, che fu la prima donna che testimoniò in tribunale contro un boss mafioso[173]. Però nel 1971, in Cassazione la condanna fu annullata perché si scoprì che la Battaglia aveva mentito[174]. Il nuovo processo portò il 13 febbraio 1979 all'assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove.[175]

La frustrazione degli inquirenti per le numerose assoluzioni per insufficienza di prove nei confronti dei mafiosi (e quindi per l'impunità da loro raggiunta) emerse da una dichiarazione rilasciata dal colonnello dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa alla Commissione parlamentare antimafia nel 1970[176]:

«Siamo senza unghie, ecco […] mentre nell’indagine normale, nella delinquenza comune, possiamo far fronte e abbiamo ottenuto anche dei risultati di rilievo, nei confronti del mafioso in quanto tale, in quanto inquadrato in tutto un contesto particolare, è difficile per noi raggiungere le prove; ciò, non ci è dato se non attraverso l’indizio, che può diventare grave, può diventare gravissimo, può avere un valore determinante anche nel giudizio discrezionale del magistrato, ma non la prova, perché essa viene a mancare. Questo è il punto dove noi ci fermiamo, malgrado gli sforzi.»

La stagione dei grandi traffici

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La riorganizzazione di Cosa nostra

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La «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969).

Dopo la fine dei grandi processi di Catanzaro e Bari, i boss Bontate, Di Cristina e Liggio decisero l'eliminazione di Michele Cavataio poiché ritenuto il principale responsabile di molti delitti della "prima guerra di mafia" (compresa la strage di Ciaculli) che avevano provocato la dura repressione delle autorità contro Cosa nostra: per queste ragioni, il 10 dicembre 1969 un "gruppo di fuoco" capeggiato da Salvatore "Totò" Riina (braccio destro di Liggio) trucidò Cavataio ed altri tre uomini in una sparatoria passata alla storia come «strage di viale Lazio», che fece notizia per i metodi "militari" utilizzati[85][119][131][177].

Nell'estate del 1970, Buscetta e "Cicchiteddu" Greco tornarono rispettivamente dagli Stati Uniti e dal Venezuela per tenere una serie di incontri a Zurigo, Milano e Catania, cui parteciparono Bontate, Badalamenti, Di Cristina, Calderone e Liggio: oggetto delle discussioni fu la richiesta, avanzata a Cosa nostra attraverso la massoneria deviata ed ambienti statunitensi, di partecipazione al golpe neofascista organizzato dal principe Junio Valerio Borghese, in cambio della revisione dei processi a carico di alcuni boss; Calderone e Di Cristina stessi andarono a Roma per incontrare il principe Borghese ed ascoltare le sue proposte ma in seguito la richiesta fu respinta[85][112][178]. Durante gli incontri, si decise inoltre di costituire un "triumvirato" che governasse provvisoriamente Cosa nostra, composto da Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, benché quest'ultimo si facesse spesso rappresentare da Salvatore Riina[112][179]. Nello stesso periodo in cui il "triumvirato" provvisorio si insediò al potere, fu deciso di porre in essere una serie di azioni intimidatorie: il tentato omicidio del deputato del M.S.I. Angelo Nicosia, membro della Commissione parlamentare antimafia (1º giugno 1970), accoltellato sotto casa a Palermo da uno sconosciuto (forse un sicario di Di Cristina)[85][132][177]; la scomparsa del giornalista de L'Ora Mauro De Mauro (16 settembre 1970), che rimase vittima della «lupara bianca» per aver scoperto un coinvolgimento dei mafiosi nel misterioso incidente aereo in cui morì il presidente dell'E.N.I. Enrico Mattei[132][180]; l'esplosione di alcune bombe rudimentali posizionate presso le sedi e gli uffici dell'Ente minerario siciliano e di alcuni assessorati regionali la notte di Capodanno del 1971[132][181][182]; l'omicidio del procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione (5 maggio 1971), assassinato in un agguato insieme al suo autista Antonino Lo Russo: si trattava del primo "delitto eccellente" commesso dall'organizzazione mafiosa nel dopoguerra[119][177]. Sulla figura di Scaglione pesarono forti sospetti di collusione con la mafia alimentati da una campagna di stampa condotta dai quotidiani comunisti L'Unità e L'Ora, dicerie in seguito smentite perché risultò dalle testimonianze di colleghi e familiari che il procuratore assassinato fu «un magistrato integerrimo e spietato persecutore della mafia».[183]

Dopo l'omicidio Scaglione, fu convocato un vertice d’emergenza a Roma cui presero parte il ministro dell’Interno Franco Restivo, il capo della polizia Angelo Vicari e il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Corrado Sangiorgio, in cui si decise di attivare un gruppo interforze a Palermo tra carabinieri e corpo di pubblica sicurezza.[176] Vi presero parte il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa (per l'Arma) e il commissario Boris Giuliano (per la pubblica sicurezza) con i loro collaboratori, che in un paio di mesi portarono a termine un lavoro di mappatura delle cosche emergenti (la cosiddetta mafia "nuovo corso"), anche servendosi di informatori e spie.[176] Il risultato fu una delle più vaste operazioni anti-mafia di quegli anni, che durò dal giugno all'ottobre del 1971 con la denuncia per i reati di associazione per delinquere e traffico di stupefacenti nei confronti di 114 boss mafiosi, in gran parte individuati ed arrestati in diverse città italiane: oltre Palermo e Catania, anche Milano, Roma e Livorno, a dimostrazione del policentrismo assunto da Cosa nostra[82][181][182][184]. Finirono di colpo in manette pezzi grossi del calibro di Paolino Bontate insieme al figlio Stefano, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calderone, Gerlando Alberti, Frank Coppola e tanti altri[145][184]. Tuttavia, nonostante l'impegno profuso dal giudice istruttore Filippo Neri e dal pubblico ministero Aldo Rizzo[185], il relativo processo si concluse nel luglio 1974 con sole 34 condanne a pene irrisorie.[166][176]

Nel 1974, passata anche questa tempesta giudiziaria, fu deciso di sciogliere il "triumvirato" per porre un freno al troppo potere acquisito da Liggio e Riina (gli unici rimasti in libertà perché latitanti): Badalamenti avrebbe guidato la nuova "Commissione", che si ricostituiva con nove capi-mandamento, questa volta scelti non più tra i "soldati" semplici (secondo il "modello" Buscetta) ma tra i capifamiglia[145][162][186].

L'anno seguente, quasi in risposta alla ricostituzione della "Commissione", Giuseppe Calderone riuscì a convincere i boss delle altre province siciliane a formare un comitato di sei membri per prendere decisioni che esulassero dall'ambito strettamente provinciale, che prese il nome di "Commissione interprovinciale" o «la Regione», di cui egli stesso assunse la "presidenza"[28][179][187]. L'idea di una Commissione regionale non era nuova (secondo Antonino Calderone, un organismo del genere esisteva già negli anni '50) ma con essa l'ala catanese di Cosa nostra rivendicava la propria autonomia decisionale rispetto ai più potenti palermitani, anche in ragione del raggiunto benessere grazie all'avvenuto sviluppo economico e ai legami con la grande imprenditoria isolana[85].

In questo contesto, un certo Leonardo Vitale si presentò spontaneamente alla questura di Palermo nel marzo 1973 e dichiarò agli inquirenti che stava attraversando una crisi religiosa e intendeva cominciare una nuova vita; infatti confessò al giudice istruttore Aldo Rizzo di appartenere alla "famiglia" della borgata palermitana di Altarello di Baida e si autoaccusò di numerosi reati, rivelando per primo il ruolo apicale assunto da Riina e descrivendo anche il rito di iniziazione per entrare in Cosa nostra e l'organizzazione di una cosca mafiosa[28]: si trattava di uno dei primi mafiosi nel dopoguerra che decideva di collaborare apertamente con le autorità e il caso venne citato nella prima relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia (redatta nel 1976 da La Torre, Terranova ed altri parlamentari)[116][145]. Tuttavia nel processo scaturito dalle sue dichiarazioni che si concluse nel 1977, Vitale (definito dalla stampa "il Joe Valachi di Altarello") non venne ritenuto credibile e condannato a 25 anni di reclusione per gli omicidi confessati, ma tutti gli altri imputati che aveva accusato furono assolti (a cominciare dal boss mafioso Pippo Calò)[166]. La sua pena venne commutata in detenzione in un manicomio criminale perché dichiarato "seminfermo di mente"; scontata la pena e dimesso, Vitale verrà ucciso nel 1984[186].

Il contrabbando di sigarette e la «Pizza connection»

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Lo stesso argomento in dettaglio: Pizza connection.

A partire dal 1961, il centro del contrabbando di sigarette nel Mediterraneo si spostò su Napoli a seguito della chiusura del porto franco di Tangeri.[133][188] Buscetta affermò che, dalle 500 casse di sigarette dell'immediato dopoguerra, si passò alle 40.000 sbarcate a ogni viaggio tra Napoli e Palermo nel biennio 1973-1974[87], anni in cui il contrabbando visse un intenso boom, che era dovuto alla dissoluzione della concorrenza corso-marsigliese, scompaginata dalla repressione poliziesca avviata in Francia.[153] Il volume di affari divenne talmente imponente che diversi mafiosi siciliani, come Gerlando Alberti, Giuseppe Calderone e Stefano Bontate, decisero di trasferirsi in Campania per meglio controllare il traffico[82][133] ed addirittura nel 1974 si provvide ad affiliare nell'organizzazione siciliana i camorristi napoletani Michele Zaza, i fratelli Nuvoletta e Antonio Bardellino, al fine di tenerli sotto controllo e di lusingarne le vanità.[85][112][189][190]

Tuttavia, dal 1974, i mafiosi iniziarono ad abbandonare le sigarette per dedicarsi a tempo pieno nella droga: proprio a cavallo di quegli anni, la domanda di sostanze stupefacenti (in particolare di eroina) aveva assunto proporzioni preoccupanti nell'Europa occidentale e nell'America settentrionale allargandosi a tutte le classi sociali ed alimentando quindi un "popolo" di milioni di tossicodipendenti dedito all'accattonaggio e ai furti per acquistare la "dose" giornaliera e decimato da continue overdosi[28][141]. I vecchi contrabbandieri iniziarono perciò ad incettare morfina base o eroina già pronta grazie ad accordi con i trafficanti della mafia turca conclusi in Svizzera o a Milano, dove già si recavano per la compravendita delle sigarette[131][141][191]. Inoltre alcuni chimici marsigliesi sfuggiti alla repressione in patria accettarono di venire in Sicilia per insegnare ai mafiosi il delicato processo chimico per trasformare la morfina base in eroina: in breve si moltiplicarono a dismisura i laboratori clandestini nascosti nelle campagne della Sicilia occidentale[131][192][193]. Il prodotto finito poi raggiungeva gli Stati Uniti con svariati mezzi.[194] Negli States il traffico era pure gestito da "uomini d'onore" siciliani che si erano trasferiti lì da alcuni anni ma non facevano parte delle "famiglie" italo-americane, di cui si servivano invece per smerciare il "prodotto": ne furono un esempio i Cuntrera-Caruana a Montréal, i Gambino a Cherry Hill, i Catalano-Ganci-Lamberti a Brooklyn, che aprirono catene di pizzerie, ristoranti e bar negli Stati Uniti come copertura per i loro grossi guadagni illegali, tanto che gli inquirenti statunitensi parlarono di «Pizza connection»[28][141][191]. Si calcola che, alla fine degli anni settanta, questi gruppi controllassero la distribuzione di circa il 30% dell'eroina consumata negli Stati Uniti.[131]

Tutti le fasi di questa "industria" erano saldamente in mano ai boss mafiosi Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Salvatore Inzerillo, che appunto potevano contare sui contatti con gli acquirenti di morfina base, con i chimici incaricati della raffinazione ed, infine, con i venditori negli Stati Uniti.[28] Gli altri boss (come Salvatore Riina e i suoi alleati) invece dovettero accontentarsi di una posizione marginale nel mercato della droga, con la conseguente nascita di inevitabili invidie e rivalità.[85][145][193]

L'ascesa dei Corleonesi (1972-1977)

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Lo stesso argomento in dettaglio: Clan dei Corleonesi.
I due boss corleonesi Salvatore Riina (a sinistra) e Luciano Liggio (a destra).

Nel 1972, approfittando della simultanea carcerazione di Bontate e Badalamenti a causa del blitz dei «114», Riina rimase da solo al comando del "triumvirato".[186] La prima azione che fece fu quella di organizzare il sequestro del facoltoso imprenditore Luciano Cassina (legato a Bontate) e di distribuire il riscatto tra le varie "famiglie" che avevano subìto gli arresti.[85] Quella dei sequestri di persona a scopo di estorsione divenne un'industria remunerativa, sull'esempio della 'ndrangheta calabrese e dell'anonima sarda: gli ostaggi, spesso ricchi imprenditori o loro familiari, passavano di mano tra le varie bande criminali come merce di scambio, venivano incatenati e nascosti in rifugi di fortuna durante le trattative per il riscatto ed, in diversi casi, uccisi o mutilati per indurre le famiglie a pagare, come nel caso del miliardario John Paul Getty III, cui fu mozzato l'orecchio e spedito ad un quotidiano[28][137][153]. Si disse che in questo rapimento fosse coinvolto anche Luciano Liggio, l'imprendibile "primula rossa" di Corleone, che aveva deciso di esportare sul "continente" quest'attività[28][115][139]. A questa decisione contribuì il divieto di realizzare sequestri in Sicilia imposto da Bontate, Badalamenti, Inzerillo, Di Cristina e dai Calderone. Tutti loro non avevano bisogno di ricorrere a questa rozza attività (tipica invece di una "mafia di campagna" qual'era quella dei Corleonesi) perché avevano grossi interessi nell'edilizia ed iniziavano ad investire massicciamente nel contrabbando di sigarette e nella droga.[28][145][178] Potevano inoltre vantare stretti legami con le élite imprenditoriali ed affaristiche, nonché con la politica a livello nazionale e con la massoneria deviata: da qui appunto l'imposizione del divieto dei sequestri, che intendeva salvaguardare i loro amici imprenditori (in particolare i Salvo e i Costanzo) dal pericolo di rapimenti.[28][85][112][131]

Nel 1974 la quasi permanente latitanza di Liggio fu interrotta da un'indagine della Guardia di Finanza a Milano che aveva portato alla liberazione di un ostaggio[115][137]. Rimasto da solo al comando dei Corleonesi, Riina (insieme a Bernardo Provenzano, anche lui ex fedelissimo di Liggio) continuò a costruire la sua base di potere, trovando proseliti soprattutto nella zona della Piana dei Colli, ormai devastata dal sacco edilizio: i boss mafiosi delle borgate di San Lorenzo e Resuttana, Giuseppe Giacomo Gambino e Francesco Madonia, divennero a Palermo gli alleati di ferro dei Corleonesi.[186] Presto anche altri boss come Pippo Calò e Michele Greco divennero seguaci di Riina in opposizione allo strapotere acquisito da Bontate e dagli altri suoi amici.[195][196] Nel frattempo, i Corleonesi riuscirono ad inserirsi con imprese "amiche" nei sub-appalti per la ricostruzione della valle del Belìce dopo il terremoto del 1968 e, oltre Palermo, continuarono ad allargare le loro alleanze al nisseno con il vecchio Francesco Madonia (solo omonimo del boss di Resuttana), a Trapani con Mariano Agate, Vincenzo Milazzo e Francesco Messina Denaro, ad Agrigento con Antonio Ferro e Carmelo Colletti, a Catania con Benedetto Santapaola e, addirittura, nel napoletano con i fratelli Nuvoletta.[193]

La spaccatura all'interno di Cosa nostra ebbe riflessi anche nello scenario politico: in momenti diversi, Salvo Lima e Vito Ciancimino abbandonarono i fanfaniani ma, mentre Lima (appoggiato dal tandem Bontate-Badalamenti e dai Salvo) passò alla corrente Primavera di Giulio Andreotti (riuscendo a farsi eleggere prima deputato, poi sottosegretario ed, infine, europarlamentare), Ciancimino (notoriamente legato ai Corleonesi di Riina) diede vita ad una gruppo indipendente (il quale forniva occasionalmente appoggio agli andreottiani)[197], che arrivò a dominare tutti i comitati d'affari all'interno del comune di Palermo e a decidere in esclusiva gli assegnatari degli appalti, dall'illuminazione pubblica alla manutenzione di strade e fognature[28][196]: a trarne vantaggio furono soprattutto imprenditori vicini a "famiglie" mafiose (i Cassina, gli Spatola, i Maniglia, per citare le imprese più note).[6][198] Nonostante le occasionali alleanze per questioni politiche, tra Lima e Ciancimino non sarebbe corso buon sangue. Secondo un'autorevole testimonianza «Lima era il Kissinger della politica, un mediatore, una persona prudente mentre [Ciancimino] era un uomo d’impeto e Lima [lo] considerava, diciamo, un parvenu, intelligente sì ma gli dava fastidio il modo in cui Ciancimino operasse politicamente»[199]. Lima si sarebbe rivolto persino al boss Buscetta per cercare di limitare le ingerenze di Ciancimino (e quindi dei Corleonesi) nel settore delle opere pubbliche.[200]

Il primo ad accorgersi del potere acquisito dai Corleonesi fu il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, il quale scoprì che i miliardi dei sequestri di persona erano investiti in società intestate a prestanome che si occupavano delle attività più varie (dall'acquisto di terreni ed immobili alla speculazione edilizia, alla sofisticazione dei vini)[201]. Nel 1977, per queste sue indagini, il colonnello Russo fu assassinato insieme ad un suo amico, l'insegnante Filippo Costa, con cui si trovava in vacanza a Ficuzza, nei pressi di Corleone.[162]

La "seconda guerra di mafia"

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Lo stesso argomento in dettaglio: Seconda guerra di mafia.

La stagione dei "cadaveri eccellenti" (1977-1980)

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Lo stesso argomento in dettaglio: Omicidio di Piersanti Mattarella.
L'omicidio del giudice Cesare Terranova (25 settembre 1979).

Il duplice omicidio Russo-Costa avvenne senza il permesso della "Commissione" e ciò causò il risentimento di Bontate, Badalamenti e dei loro alleati contro i Corleonesi. Per ritorsione, Riina ordinò di uccidere Di Cristina ma i killers sbagliarono obiettivo[202]. Secondo alcune testimonianze, nel 1978 tornò dal Venezuela addirittura "Cicchiteddu" Greco per cercare di ricomporre la situazione (secondo altri, arrivò per concordare l'offensiva contro i Corleonesi)[131][145][202][203]. Fu allora che Di Cristina si accordò con Calderone per assassinare colui che riteneva responsabile del fallito agguato ai suoi danni, cioè Francesco Madonia (principale alleato dei Corleonesi nella provincia di Caltanissetta) e poi si rivolse ai carabinieri, facendo una serie di confidenze nel disperato tentativo che riuscissero ad arrestare in tempo i Corleonesi ed annunciando inoltre che presto avrebbero fatto uccidere il giudice Cesare Terranova (cosa che effettivamente avvenne).[131][186][204] Riina utilizzò questa manovra come pretesto per assassinare Di Cristina mentre qualche tempo dopo anche Giuseppe Calderone finì ucciso dal suo sodale Benedetto Santapaola, che era passato alla fazione corleonese[187]. Badalamenti fu invece espulso dalla "Commissione" con la scusa di essere l'ispiratore dell'omicidio di Madonia e del complotto ai danni di Riina e dei suoi alleati.[145][202] Fuggito in Brasile per timore di essere eliminato anche lui, Badalamenti fu quindi sostituito nella carica di capo della "Commissione" da Michele Greco (detto "il Papa", capo del "mandamento" di Brancaccio-Ciaculli, che era passato anche lui con i Corleonesi).[186] Prima di riuscire a scappare oltreoceano, Badalamenti fece in tempo a far assassinare, dilaniandolo con l'esplosivo, il giovane Peppino Impastato (9 maggio 1978), militante della sinistra extraparlamentare che denunciava pubblicamente i suoi traffici e i suoi legami con la politica locale e l'imprenditoria[28][145]. Per parecchi anni, l'omicidio Impastato fu fatto passare come un attentato kamikaze.[28]

Nel 1979, la "Commissione", ormai composta in maggioranza da alleati dei Corleonesi, scatenò una serie senza precedenti di "omicidi eccellenti" nei confronti di esponenti delle istituzioni che intralciavano il suo potere[205]. In quei mesi infatti vennero barbaramente trucidati: il giornalista Mario Francese (26 gennaio), che sul Giornale di Sicilia aveva firmato una serie di articoli d'inchiesta sugli affari di Riina e dei suoi amici[206]; il segretario provinciale democristiano Michele Reina (9 marzo), appartenente alla corrente andreottiana che si opponeva alle interferenze di Vito Ciancimino (referente politico dei Corleonesi) nel settore degli appalti ed aveva inoltre promosso un'inedita alleanza con il P.C.I. per la formazione di una nuova giunta comunale a Palermo[120][123][207]; il commissario Boris Giuliano (21 luglio), il quale stava indagando sul flusso di denaro sporco proveniente dal narcotraffico che si riversava negli istituti di credito[131] e, per tale ragione pochi giorni prima che morisse, incontrò l'avvocato milanese Giorgio Ambrosoli, assassinato l'11 luglio precedente su mandato del bancarottiere italo-americano Michele Sindona perché indagava sul crac delle sue banche (dove appunto si riciclavano i capitali sporchi del gruppo mafioso Bontate-Inzerillo-Gambino)[208][209]; il giudice Cesare Terranova, ucciso insieme al maresciallo di polizia Lenin Mancuso che lo scortava (25 settembre) perché si apprestava ad insediarsi a capo dell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, da dove avrebbe potuto coordinare tutte le indagini antimafia[131]. Nell'anno successivo vi furono altri tre "cadaveri eccellenti": il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella (6 gennaio), seguace politico di Aldo Moro che, alla guida di un governo regionale di «solidarietà autonomista» (cioè con l'appoggio esterno del P.C.I.)[120][123], voleva avviare un'opera di modernizzazione dell'apparato amministrativo della Regione ed aveva disposto ispezioni su alcuni appalti pubblici[205][205]; il capitano dei carabinieri Emanuele Basile (4 maggio), che stava proseguendo le indagini del commissario Giuliano sulle "famiglie" di Corso dei Mille ed Altofonte, principali alleate dei Corleonesi; il procuratore capo Gaetano Costa (6 agosto), che venne fatto assassinare dal boss Salvatore Inzerillo perché aveva personalmente firmato una serie di mandati di arresto nei confronti di affiliati alla sua "famiglia", accusati di traffico di eroina e di aver protetto la misteriosa fuga in Sicilia (camuffata in rapimento) del bancarottiere Sindona finalizzata probabilmente ad un progetto di golpe separatista in accordo con ambienti statunitensi e massonici (o forse nascondeva una manovra di ricatto per recuperare il denaro dei Bontate-Inzerillo-Gambino andato perduto nella bancarotta delle sue banche).[205][209][210] Il procuratore Costa fu lasciato da solo persino dai colleghi, che rifiutarono di firmare i mandati di cattura[211]. Inzerillo voleva inoltre mandare un segnale ai Corleonesi, dimostrando che anche lui era capace di ordinare un omicidio "eccellente"[162].

L'omicidio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980).

Nell'estate del 1980, Buscetta tornò a Palermo dopo essere fuggito dalla semilibertà e fu incaricato da Bontate e Inzerillo di convincere Pippo Calò ad abbandonare i Corleonesi e a passare nuovamente dalla loro parte[28][87][162][186]. Ma, fallito questo tentativo, Buscetta capì che si preparava una nuova guerra e preferì trasferirsi nuovamente in Brasile, dove fu poi raggiunto da Badalamenti[145][162]. Nella sua testimonianza resa qualche anno più tardi, Buscetta cercò di gettare una sinistra luce sui Corleonesi, raccontandoli come la "mafia" cattiva che non aveva remora ad uccidere i rappresentanti dello Stato, sempre più invischiata nel mercato della droga e dei sequestri di persona. Al contrario egli affermò di appartenere, insieme a Bontate e Badalamenti, alla mafia "buona" che incarnava i vecchi valori morali di giustizia e rifiutava la contrapposizione violenta con lo Stato, nonché la vendita di droga.[28] Questa visione appare fuorviante poiché è dimostrato che Bontate e Badalamenti (sicuramente anche lo stesso Buscetta, nonostante lo abbia sempre negato) furono grossi trafficanti di stupefacenti che, all'uccisione indiscriminata degli uomini dello Stato, preferivano il condizionamento silenzioso e pervasivo delle istituzioni realizzato attraverso politici compiacenti o l'infiltrazione in logge massoniche deviate[28][123][196]. Inoltre diverse fonti affermano che il "buono" Bontate, a cavallo della missione fallita di Buscetta, inviò un suo socio nel giro della droga da un mercante straniero per rifornirsi di armi da fuoco pesanti e giubbotti antiproiettile nell'imminenza di un conflitto armato contro i Corleonesi.[139][162]

La "mattanza" (1981-1982)

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Lo stesso argomento in dettaglio: Strage della circonvallazione e Strage di via Carini.
L'omicidio di Stefano Bontate (23 aprile 1981).

Il pretesto della guerra fu fornito nel marzo 1981 dalla scomparsa di Giuseppe Panno, anziano "patriarca" mafioso di Casteldaccia (secondo alcuni soppresso dai Corleonesi, secondo altri da Bontate stesso per far ricadere la colpa su Riina).[186][195] Bontate allora organizzò in gran segreto l'uccisione di Riina, che lo venne a sapere e lo anticipò facendo assassinare brutalmente prima lui (23 aprile) e, subito dopo, anche il suo principale alleato Inzerillo (11 maggio)[162]. Il 25 maggio successivo, 8 mafiosi appartenenti alle cosche Bontate-Inzerillo vennero attirati in imboscate dai loro stessi associati (passati segretamente con i Corleonesi) e fatti sparire[139]. Il "gruppo di fuoco" corleonese sterminò anche i numerosi "candidati" alla successione di Panno nella zona tra Bagheria, Casteldaccia ed Altavilla Milicia (che venne soprannominata «triangolo della morte» dalla stampa dell'epoca) ed, al loro posto, installò al comando i propri fedelissimi[212][213]. In quei due anni (1981-82) si contarono circa 200 omicidi per le strade di Palermo e del «triangolo della morte», a cui si aggiunsero altrettante «lupare bianche»[187].

Il massacro si estese perfino negli Stati Uniti: Paul Castellano, capo della "famiglia" Gambino di New York, inviò i mafiosi Rosario Naimo e John Gambino (imparentato con gli Inzerillo) a Palermo per accordarsi con la "Commissione"[214], la quale stabilì che i parenti superstiti di Inzerillo fuggiti negli Stati Uniti avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più in Sicilia ma, in cambio della loro fuga, Naimo e Gambino dovevano trovare ed uccidere Antonino e Pietro Inzerillo, rispettivamente zio e fratello del defunto Salvatore, fuggiti anch'essi negli Stati Uniti[215]: Antonino Inzerillo rimase vittima della «lupara bianca» a Brooklyn mentre il cadavere di Pietro venne ritrovato nel bagagliaio di un'auto a Mount Laurel, nel New Jersey, con una mazzetta di dollari in bocca e tra i genitali (14 gennaio 1982)[216].

Buscetta e Badalamenti riuscirono a scampare alla carneficina perché si trovavano in quel momento in Brasile ma i Corleonesi colpirono i loro parenti per costringerli ad uscire allo scoperto: due figli di Buscetta rimasero vittime della «lupara bianca» e gli vennero uccisi un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti[217]. A Badalamenti furono invece assassinati undici familiari.[139][145][162] Ma il caso più eclatante fu quello di Salvatore Contorno, "soldato" di Bontate sopravvissuto ad un agguato organizzato dai Corleonesi nel 1981, cui per ritorsione furono assassinati 35 tra parenti ed amici.[218] La vendetta dei Corleonesi s'abbatté anche su Giovannello Greco e Pietro Marchese, due "soldati" della borgata di Ciaculli considerati "traditori" perché avevano abbandonato lo schieramento di Riina per passare con Buscetta e Badalamenti: Giovannello Greco si vide uccidere il padre, lo zio, il suocero e il cognato prima di far perdere le sue tracce all'estero[219] mentre Marchese finì accoltellato mentre era detenuto all'Ucciardone[220].

Anche i potenti cugini Antonino ed Ignazio Salvo, temendo di finire anche loro vittime della vendetta dei Corleonesi, cercarono di convincere (invano) Buscetta a tornare dal Brasile per guidare la riscossa dei "perdenti" ma, alla fine, s'accordarono con Michele Greco ed ebbero salva la vita, finendo così nell'orbita di Riina.[221][222]

Il cadavere sfigurato di Salvatore Inzerillo (11 maggio 1981).

Alla fine del 1982 la polizia scoprì nella zona del porticciolo di Sant'Erasmo, nella parte orientale della città dominata dal feroce boss Filippo Marchese (bieco assassino al servizio dei Corleonesi), una casa abbandonata dove i killers attiravano le proprie vittime, le torturavano e poi le facevano sparire, sciogliendole nell'acido o buttandole in alto mare[219][223]. I giornali paragonarono quella casa alla «camera della morte», ossia la sezione della tonnara dove si svolge l'ultimo atto cruento della "mattanza", ossia la tradizionale pesca siciliana dei tonni, che qui venivano intrappolati e poi finiti ad arpionate dai pescatori.[28][141][205] Marchese infatti guidava le squadre di killers che seminavano lutti nel «triangolo della morte» Bagheria-Casteldaccia-Altavilla e l'11 agosto del 1982 fece uccidere il medico legale Paolo Giaccone, freddato lungo i viali del Policlinico perché si era rifiutato di modificare una perizia su un'impronta digitale che incastrava per omicidio uno dei sicari del «triangolo della morte»[219]. Anche il poliziotto Calogero Zucchetto fu assassinato all'uscita di un bar nella centralissima via Notarbartolo il 14 novembre successivo perché dava la caccia ad alcuni temibili killers del «triangolo della morte»[224]. Marchese fu poi ammazzato e fatto sparire dai suoi stessi uomini perché appariva troppo sadico persino agli occhi di Riina.[196]

Nel novembre 1982 si registrò l'ultimo atto della "mattanza": nel corso di una grigliata all'aperto nella tenuta di Michele Greco a Ciaculli, furono ammazzati simultaneamente il boss Rosario Riccobono e altri mafiosi di Partanna-Mondello, Noce e dell'Acquasanta, che avevano tradito il duo Bontate-Inzerillo per passare con i Corleonesi, i quali li ritenevano inaffidabili proprio per questo motivo: furono perciò strangolati da Riina in persona e dai suoi, i loro corpi spogliati e buttati in bidoni pieni di acido[196]. Nella stessa giornata, in ore e luoghi diversi di Palermo, furono anche uccisi numerosi loro associati per evitarne la reazione[225].

Nello stesso periodo, nelle altre province siciliane Riina e Provenzano imposero i propri uomini di fiducia, che eliminarono i mafiosi locali che erano stati legati al gruppo Bontate-Badalamenti[187][214]: infatti Francesco Messina Denaro (capo del "mandamento" di Castelvetrano) divenne il rappresentante mafioso della provincia di Trapani (scalzando il potente Totò Minore, che fu soppresso e fatto sparire), Carmelo Colletti della provincia di Agrigento, Giuseppe "Piddu" Madonia (figlio di Francesco e capo del "mandamento" di Vallelunga Pratameno[187]) di quella di Caltanissetta mentre Benedetto Santapaola divenne capo della Famiglia di Catania dopo l'omicidio del suo rivale Alfio Ferlito (ex vice di Giuseppe Calderone[164]), trucidato insieme a tre carabinieri che lo stavano scortando in un altro carcere nella cosiddetta «strage della circonvallazione» (16 giugno 1982)[186][226].

L'omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro (3 settembre 1982).

In queste circostanze, la "Commissione" (ormai composta soltanto da capi-mandamento fedeli a Riina e Provenzano) ordinò l'omicidio dell'onorevole Pio La Torre, che era giunto da pochi mesi in Sicilia per prendere la direzione regionale del P.C.I. ed aveva proposto un disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di "associazione mafiosa" e la confisca dei patrimoni mafiosi di provenienza illecita: il 30 aprile 1982 La Torre venne trucidato insieme al suo autista Rosario Di Salvo in una strada di Palermo[227].

In seguito al delitto La Torre, il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e il ministro dell'Interno Virginio Rognoni chiesero al generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa di insediarsi come prefetto di Palermo con sei giorni di anticipo: infatti il ministro Rognoni, nel tentativo di replicare contro la mafia i clamorosi successi ottenuti dal generale nella lotta al terrorismo brigatista, aveva promesso a Dalla Chiesa poteri di coordinamento fuori dall'ordinario per contrastare l'emergenza mafiosa ma tali poteri non gli furono mai concessi[228]. Per queste ragioni Dalla Chiesa denunciò il suo stato di isolamento con una famosa intervista al giornalista Giorgio Bocca, in cui parlò anche dei legami tra le cosche ed alcune famose imprese catanesi (il riferimento implicito era ai Costanzo e agli altri cavalieri del lavoro Graci, Rendo e Finocchiaro)[205][229]; infine il 3 settembre 1982, dopo circa cento giorni dal suo insediamento a Palermo, Dalla Chiesa venne brutalmente assassinato da un gruppo di fuoco mafioso insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente di scorta Domenico Russo.

Gli anni della "primavera"

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Il risveglio della società civile e la "primavera" di Palermo

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Lo stesso argomento in dettaglio: Primavera di Palermo.
Leoluca Orlando negli anni '80.

Negli anni '70, su Cosa nostra calò «una cappa di silenzio» da parte delle istituzioni (come l'ha definita Giovanni Falcone)[131] perché il grosso della politica, della magistratura e delle forze dell'ordine erano impegnate nella lotta alle Brigate Rosse e al terrorismo in generale[28]. Tuttavia la stagione dei "cadaveri eccellenti" e la "mattanza" scatenata dai Corleonesi con cadenza quasi quotidiana provocò lo sdegno dell'opinione pubblica su scala nazionale e regionale, che contribuì alla nascita di un vasto movimento antimafia.[129] A parte alcuni sparuti gruppi della sinistra extraparlamentare (come Democrazia Proletaria, che nel 1979 organizzò a Cinisi, "feudo" del boss Gaetano Badalamenti, la prima manifestazione pubblica contro la mafia che la storia ricordi, con oltre 2.000 partecipanti)[129], a farsi interprete del nuovo clima di opposizione alla violenza mafiosa fu, per prima, la Chiesa cattolica siciliana: le omelie dell'arcivescovo di Palermo, monsignor Salvatore Pappalardo, tenute in occasione dei funerali di diversi "cadaveri eccellenti", divennero dei veri e propri atti d'accusa contro le aberrazioni del potere mafioso (e contro l'inerzia dello Stato nella lotta a Cosa nostra).[230] A causa di queste sue posizioni, la messa di Pasqua del 1982 celebrata dal cardinale Pappalardo nel carcere dell'Ucciardone fu disertata da tutti i detenuti.[198]

Anche sul piano politico si registrò un significativo cambiamento perché la Democrazia Cristiana stava tentando di limitare l’influenza dei gruppi mafiosi al suo interno: i governi di «solidarietà nazionale», avviati (con l'appoggio del P.C.I. di Berlinguer) su scala nazionale da Moro, Zaccagnini ed Andreotti e in Sicilia da Piersanti Mattarella, Rosario Nicoletti e Michele Reina, furono infatti visti come un tradimento da Cosa nostra[120], che reagì ammazzando prima Reina e poi Mattarella (facendo quindi prevalere la linea "oltranzista" dei Corleonesi su quella "moderata" di Bontate, che invece avrebbe cercato di intervenire su Nicoletti con minacce ed avvertimenti)[123][231], ma ciò determinò una progressiva presa di distanza da parte della corrente andreottiana (definita da Dalla Chiesa «la famiglia politica più inquinata dell'isola»)[232], la quale iniziò a schierarsi a favore di iniziative legislative antimafia.[6][123][200]

In quegli anni a Palermo iniziarono inoltre a nascere diverse associazioni e comitati organizzati che si schierarono apertamente contro la mafia, la droga e il degrado urbano, come il Coordinamento antimafia costituito dai familiari di alcuni "cadaveri eccellenti".[198][205] Il 26 febbraio 1983 i comitati studenteschi e i parroci del territorio, con l'adesione del cardinale Pappalardo e di forze eterogenee (dalla C.G.I.L. alla C.I.S.L., dal P.C.I. alle A.C.L.I. e gli Scout, nonché tante altre associazioni sia laiche che cattoliche), diedero luogo ad una storica marcia antimafia che sfilò lungo il famigerato «triangolo della morte» Bagheria-Casteldaccia-Altavilla con la partecipazione di circa 10.000 persone.[129]

Famosa divenne inoltre l'azione dei gesuiti raccolti intorno al Centro "Pedro Arrupe" diretto dai padri Bartolomeo Sorge ed Ennio Pintacuda, che furono gli ispiratori dell'azione politica di Leoluca Orlando, democristiano e allievo di Piersanti Mattarella, eletto sindaco di Palermo nel 1985 e sostenuto, prima, da una giunta pentacolore di centro-sinistra e poi da una esacolore allargata al P.C.I. (che entrò, per la prima volta nella sua storia, nel governo della città)[198][205]. L'esperimento politico di Orlando fu soprannominato "primavera di Palermo" perché, oltre a coinvolgere comitati ed associazioni nell'azione di governo, mirò (tra infinite polemiche) a tagliare i ponti con tutti quei comitati d'affari annidati da oltre vent'anni all'interno dell'amministrazione comunale, il cui dominus incontrastato era Vito Ciancimino (nonostante fosse stato allontanato dalla Democrazia Cristiana nel 1983 per volontà del nuovo segretario nazionale Ciriaco De Mita)[197], cui si erano già opposti invano i due precedenti sindaci Elda Pucci e Giuseppe Insalaco.[198][205] Dopo cinque anni di governo, con l'avvento di Arnaldo Forlani (alleato di Andreotti e Craxi) alla segreteria nazionale della Democrazia Cristiana, Orlando sarà scaricato dal suo stesso partito e costretto alle dimissioni dalla carica di sindaco, a causa della sua alleanza con il P.C.I. e dei suoi reiterati attacchi al P.S.I. e all'europarlamentare andreottiano Salvo Lima (da lui pubblicamente accusati di collusione con Cosa nostra)[205][233][234]. Nonostante tutto ciò, l'esperienza della "primavera" risultò alquanto controversa perché il tentativo di bloccare l'ingerenza di Ciancimino nell'assegnazione degli appalti pubblici si rivelò fallimentare e risultò in seguito che uno degli assessori della giunta Orlando, il futuro senatore Vincenzo Inzerillo, fosse in rapporti con la mafia[235][236].

Anche il P.C.I., che fino ad allora aveva avuto un ruolo fondamentale nella lotta contro la mafia ma era rimasto sempre relegato all'opposizione, con la politica di «compromesso storico» (prima) e di sostegno alla giunta Orlando (poi)[237] avviò relazioni politiche e d'affari con personaggi chiacchierati, nonostante in passato fossero stati attaccati dagli stessi comunisti per i loro legami con Cosa nostra.[6][120] Dimostrazione furono gli accordi stipulati da alcune aziende aderenti alla Legacoop (tradizionalmente legate al P.C.I.) con i Cassina e i Costanzo (gruppi imprenditoriali notoriamente legati a "famiglie" mafiose) per la realizzazione di importanti lavori pubblici[120][238][239] (si scoprì in seguito che diversi imprenditori "rossi" furono cooptati nel sistema di controllo degli appalti voluto dai Corleonesi)[240][241][242]. Quando nel 1988 fu chiesto conto di tali rapporti d'affari al deputato regionale del P.C.I. Michelangelo Russo, egli rispose che «uno prima di formare consorzi a Palermo non può certo fare l’analisi del sangue ai gruppi locali» (dichiarazione subito sconfessata dal partito)[243][244].

La legge "Rognoni-La Torre" e nuovi "cadaveri eccellenti"

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Lo stesso argomento in dettaglio: Legge 13 settembre 1982, n. 646 e Strage di via Pipitone.

L'efferato omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell'agente di scorta Domenico Russo (passato alla storia come "strage di via Carini"), oltre a provocare lo sdegno dell'opinione pubblica siciliana e nazionale, ebbe un effetto politico dirompente: nei giorni successivi al massacro, il governo Spadolini II varò la legge 13 settembre 1982 n. 646 (detta "Rognoni-La Torre" dal nome dei promotori del disegno di legge) che introdusse nel codice penale italiano l'art. 416-bis, il quale prevedeva per la prima volta nell'ordinamento italiano il reato di "associazione di tipo mafioso" e la confisca dei patrimoni di provenienza illecita.[245]

Tutto ciò indusse i mafiosi a scatenare ritorsioni contro i magistrati che applicavano questa nuova norma: il 26 gennaio 1983, il territorio di Trapani subì il suo primo delitto "eccellente", cioè l'omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, il quale aveva avuto l'innovativa idea di condurre accertamenti nelle banche locali per dimostrare il ruolo delle "famiglie" trapanesi nel traffico internazionale di droga e preparava il suo trasferimento alla Procura di Firenze, da dove avrebbe potuto disturbare gli interessi dei Corleonesi in Toscana[246][247]; il 29 luglio un'autobomba parcheggiata sotto casa uccise Rocco Chinnici, capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, insieme a due agenti di scorta e al portiere del condominio.[248] Si seppe che l'attentato era stato preannunciato da un informatore almeno due settimane prima ma non fu presa nessuna misura di sicurezza[205]. Inoltre il settimanale L'Espresso pubblicò alcuni appunti di Chinnici in cui accusava colleghi ed avvocati di complicità con Cosa nostra, denunciando un clima di condizionamento delle indagini[205][249].

Alcune settimane prima dell'attentato che aveva ucciso Chinnici, il 13 giugno 1983, erano stati trucidati in un agguato in via Scobar a Palermo il capitano dei carabinieri Mario D'Aleo insieme all'appuntato Giuseppe Bommarito e al carabiniere Pietro Morici, che stavano proseguendo le indagini del capitano Emanuele Basile sugli alleati dei Corleonesi (in particolare sui Brusca di San Giuseppe Jato) e sui loro interessi nel campo dei lavori pubblici.[250][251]

Il 5 gennaio 1984 anche Catania ebbe il suo primo "cadavere eccellente": fu ucciso il giornalista e scrittore Giuseppe Fava, che sul suo periodico I Siciliani stava conducendo una solitaria campagna di stampa contro i Costanzo e gli altri "cavalieri del lavoro" catanesi (da lui definiti i «quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa» in un celebre articolo), accusandoli di aver intrecciato legami con il boss Benedetto Santapaola dopo la fine dei Calderone[205][252]. Il sindaco democristiano di Catania, Angelo Munzone, e il suo capo-corrente, il deputato Antonino Drago (definito «il Salvo Lima di Catania» in quanto leader della corrente andreottiana nella Sicilia orientale ed anch'egli con un passato da fanfaniano), dichiararono ai giornalisti che «a Catania la mafia non c'è» e non bisognava criminalizzare i "cavalieri del lavoro" che «hanno dato notevoli occasioni di lavoro alla città» in quanto, sentendosi accusati, esisteva il pericolo che essi «emigrino, investendo i loro danari in Piemonte o in Liguria»[252].

Il pool antimafia, i primi "pentiti" e il maxiprocesso

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Giovanni Falcone (sulla sinistra) insieme a Paolo Borsellino (al centro) ed Antonino Caponnetto nel 1986.

Dopo l'assassinio di Chinnici, il giudice Antonino Caponnetto, che lo sostituì a capo dell'Ufficio Istruzione, decise di istituire un "pool antimafia", ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente e a tempo pieno dei reati di stampo mafioso, di cui chiamò a far parte i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.[253] Falcone in particolare era esperto in investigazioni patrimoniali e bancarie, che aveva già utilizzato con successo in un processo contro la cosca Inzerillo[205]. Furono infatti le indagini sui patrimoni accumulati illecitamente e sui conti bancari (rivoluzionarie per l'epoca) che consentirono al pool di accumulare un'abbondante materiale probatorio in grado di decifrare i legami tra le cosche.[205][254] Tuttavia la conferma a questo lavoro arrivò con la collaborazione di Tommaso Buscetta: arrestato in Brasile ed estradato in Italia nel giugno 1984, il boss, braccato dai Corleonesi che gli avevano sterminato la famiglia, decise di raccontare tutto ciò che sapeva su Cosa nostra al giudice Falcone, rivelando i nomi degli adepti e gli organigrammi delle "famiglie", l'esistenza di regole di comportamento, gerarchie e rituali d'affiliazione che consentirono di considerare le cosche non più come gruppi criminali autonomi ma parte di un'unica organizzazione, Cosa nostra appunto.[162][164][217] Buscetta tacque però sui legami della mafia con il mondo politico: gli unici personaggi legati alla politica che accusò furono Vito Ciancimino e i cugini Nino ed Ignazio Salvo ma non volle andare oltre, nonostante le insistenze di Falcone.[87][205] Il 29 settembre 1984 le dichiarazioni di Buscetta produssero 366 ordini di cattura eseguiti, oltre a Palermo, anche a Roma, Milano e Frosinone.[255] Stessa cosa fece subito dopo Salvatore Contorno, anche lui sopravvissuto alla «seconda guerra di mafia» e vittima di vendette trasversali contro i suoi parenti ed amici, le cui dichiarazioni costituirono una conferma a quelle di Buscetta[254]. Nell'ottobre del 1984 le rivelazioni di Contorno portarono ad altri 127 mandati di cattura, nonché arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna[218].

Tommaso Buscetta viene estradato dal Brasile in Italia, dove inizierà a collaborare con il giudice Falcone (15 luglio 1984).

Inoltre, nell'aprile 1984, Gaetano Badalamenti fu acciuffato in Spagna ed estradato negli Stati Uniti: le intercettazioni telefoniche e le indagini dell'F.B.I. accertarono che il boss, nonostante fosse caduto in disgrazia agli occhi dell'organizzazione siciliana (fosse quindi "posato" in gergo mafioso), rimaneva una formidabile fonte di approvvigionamento di eroina per il gruppo Catalano-Ganci-Lamberti di Brooklyn.[141][205][256] Tuttavia gli esponenti di tale gruppo risultarono affiliati a "famiglie" legate ai Corleonesi, notori nemici del Badalamenti (alcuni sostennero che fosse un doppiogiochista, altri che stava per essere attirato in un tranello per assassinarlo).[141][195] Era il caso della «Pizza connection», definita la «più grande operazione del secolo contro la criminalità organizzata» dal Procuratore generale degli Stati Uniti William French Smith[257], che segnò l'inizio di una proficua collaborazione tra il pool antimafia e gli inquirenti statunitensi, i quali stipularono un accordo speciale per utilizzare entrambi e proteggere Buscetta[258], divenuto testimone-chiave del caso che, infine, si concluse con la condanna negli Stati Uniti a 45 anni di carcere per Badalamenti e per Salvatore Catalano, boss dell'omonimo gruppo siculo-americano.[205]

Messi alle strette dalla pressione giudiziaria, i Corleonesi non fecero attendere la loro reazione: prima con la cosiddetta strage di Piazza Scaffa (18 ottobre 1984), quando in una stalla del quartiere palermitano di Corso dei Mille-Sant'Erasmo (zona controllata dai più feroci killers di Riina) furono massacrate a fucilate otto persone per punire uno "sgarro"[259], e l'omicidio di alcuni "pentiti" (come Leonardo Vitale, assassinato il 2 dicembre dello stesso anno)[260] e di loro amici e parenti, al fine di mettere paura a Buscetta e Contorno ed indurli così a ritrattare[205][261][262]. I due collaboratori di giustizia non si lasciarono tuttavia intimidire e continuarono a rendere dichiarazioni al giudice Falcone[205][263]. Poi da Roma, dove si era trasferito sotto falso nome da alcuni anni e lì aveva intrecciato importanti relazioni con neofascisti, agenti segreti, imprenditori, faccendieri e camorristi (parte di quel milieu che risultò implicato a vario titolo nella misteriosa morte del bancarottiere Roberto Calvi, protagonista di uno dei più gravi scandali finanziari italiani che fu trovato impiccato a Londra nel 1982)[264], il boss Pippo Calò organizzò, insieme ad ambienti criminali legati alla banda della Magliana, la strage del Rapido 904 (23 dicembre 1984), che provocò 17 morti e 267 feriti, nel tentativo di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dalle indagini del pool antimafia e dalle dichiarazioni di Buscetta e Contorno[265]. Il 2 aprile 1985, i Corleonesi ripresero in maniera cruenta l'offensiva contro la magistratura impegnata nelle inchieste antimafia: un altro spaventoso attentato con autobomba a Pizzolungo, nei pressi di Trapani, che doveva colpire il giudice Carlo Palermo (titolare di una complessa indagine su un vasto traffico di droga ed armi imbastito da faccendieri, mafiosi siciliani e turchi con il Medio Oriente) uccise la casalinga Barbara Rizzo e i suoi bimbi di soli 6 anni, Giuseppe e Salvatore Asta, che transitavano in auto nel momento dell'esplosione.[266] Subito dopo l'orrendo massacro, il sindaco democristiano di Trapani, Erasmo Garuccio, si affrettò a dichiarare ai giornali che «a Trapani la mafia non esiste»[267]. Un mese dopo l'attentato, fu trovato ad Alcamo un laboratorio clandestino per la produzione di eroina (il più grande mai scoperto in Europa), che era gestito dai mafiosi di Alcamo e Castellammare del Golfo responsabili del massacro di Pizzolungo (ed alleati di ferro dei Corleonesi nel trapanese)[131][268].

Un'udienza del maxiprocesso di Palermo (1986).

Nell'estate del 1985, a pochi giorni di distanza, furono uccisi due validi investigatori che a lungo avevano collaborato con il pool antimafia: il commissario Beppe Montana (28 luglio) e il vice questore Ninni Cassarà (6 agosto), massacrato insieme all'agente di scorta Roberto Antiochia.[269] Questi due omicidi indussero le autorità ad aumentare le misure di sicurezza intorno a Falcone e Borsellino, incaricati di redigere l'imponente ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio degli imputati accusati da Buscetta e Contorno: i due magistrati furono perciò trasferiti insieme alle proprie famiglie presso la foresteria del carcere dell'Asinara, dove poterono completare il loro lavoro.[249]

Finalmente, l'8 novembre 1985 il giudice Falcone poté depositare l'ordinanza-sentenza di 8 000 pagine che rinviava a giudizio 476 indagati in base alle indagini del pool antimafia supportate dalle dichiarazioni di Buscetta, Contorno e altri ventitré collaboratori di giustizia[270][271]: il cosiddetto "maxiprocesso" che ne scaturì iniziò in primo grado il 10 febbraio 1986, presso un'aula bunker appositamente costruita all'interno del carcere dell'Ucciardone a Palermo per accogliere i numerosi imputati e avvocati[272]. Con una scelta considerata rivoluzionaria, la giunta del sindaco Leoluca Orlando si costituì parte civile nel processo.[205] Dopo 349 udienze, 1314 interrogatori e 635 arringhe difensive, il maxiprocesso si concluse in primo grado il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, tra cui 19 ergastoli che vennero comminati tra gli altri ai boss latitanti Benedetto Santapaola, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, giudicati in contumacia[249][254][273].

La stagione dei "veleni"

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I giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Nel gennaio 1988, a Palermo si contarono altri due "cadaveri eccellenti": a distanza di due giorni l'uno dall'altro, furono assassinati l'ex sindaco Giuseppe Insalaco (che aveva rifiutato di sottostare al sistema degli appalti pilotati da Vito Ciancimino) e l'agente di polizia Natale Mondo (già sopravvissuto all'attentato che costò la vita a Ninni Cassarà, si era infiltrato in una banda di narcotrafficanti legati alle cosche del quartiere Arenella)[274]. In quell'anno si assistette anche allo smantellamento del pool antimafia: dopo la nomina di Borsellino a Procuratore della Repubblica di Marsala, Caponnetto chiese di tornare a Firenze prima del pensionamento e, al suo posto, il Consiglio superiore della magistratura nominò Antonino Meli, bocciando clamorosamente la candidatura di Falcone, considerato da molti l'erede naturale di Caponnetto.[205] Insediatosi a capo dell'Ufficio istruzione, Meli iniziò gradualmente a togliere al pool l'esclusiva sulle indagini antimafia, entrando in aperto contrasto con i suoi componenti.[205] Nonostante ciò, Falcone portò a termine una brillante operazione: il boss mafioso catanese Antonino Calderone, detenuto in un carcere francese, chiese di poter parlare esclusivamente con lui e, con le sue rivelazioni, portò all'arresto di 160 mafiosi in tutta la Sicilia, accusando anche i potenti imprenditori Costanzo[85][205]. Ma Meli decise di togliere l'inchiesta Calderone al pool e di smembrarla tra le varie Procure siciliane, con la scusa che non era sufficientemente provato che Cosa nostra fosse un'organizzazione unitaria e verticistica, come sosteneva Falcone.[205][275] Borsellino (che stava ottenendo notevoli successi nelle indagini antimafia in provincia di Trapani) decise di denunciare pubblicamente questa grave situazione[276] ma rischiò un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio superiore della magistratura[205][277].

I giudici del pool persero persino l'appoggio del movimento antimafia: lo scrittore Leonardo Sciascia accusò di carrierismo i magistrati impegnati in inchieste sulla mafia in un celebre articolo apparso sul Corriere della Sera[278] mentre, in televisione, Leoluca Orlando tuonò contro Falcone, accusandolo di insabbiare le indagini sui legami politici della mafia[205][279][280]. Finita l'esperienza del pool e bocciato nuovamente dal C.S.M. per la nomina ad Alto commissario antimafia (che andò invece al magistrato Domenico Sica), nella primavera del 1989 Falcone finì nuovamente nell'occhio del ciclone a causa di alcune lettere anonime (pubblicate dai maggiori quotidiani nazionali) che lo accusavano di utilizzare il "pentito" Contorno come «killer di Stato» per sterminare i Corleonesi, accusa infamante e palesemente infondata[205][249][280]. Fu rinvenuto, nello stesso periodo, un borsone carico di tritolo collocato nei pressi della villa al mare affittata da Falcone nel periodo estivo: si diffuse la voce calunniosa che fosse una messinscena per permettere al giudice di ottenere visibilità.[205][249][281]

Nel frattempo, Falcone raccolse le dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, un altro mafioso che aveva preteso di parlare esclusivamente con lui: Mannoia si rivelò prezioso perché rivelò le ultime trame di Cosa nostra ma sui rapporti politici fu evasivo come Buscetta[131][205]. Per ritorsione, a Marino Mannoia furono uccise la madre, la sorella e una zia.[282][283] Le uniche ammissioni "esplosive" che fece a Falcone furono i passati legami tra Bontate e l'eurodeputato Salvo Lima ma anche che, in occasione delle elezioni politiche del 1987, la "Commissione" presieduta da Riina aveva disposto di votare per il Partito Socialista Italiano e per il Partito Radicale per punire la Democrazia Cristiana del suo scarso interesse per l'esito del Maxiprocesso.[231][284] In effetti, nel 1987 entrambi i partiti, che si fecero portavoce di furiosi attacchi contro la magistratura in relazione al caso Tortora, aumentarono i loro consensi in zone «ad alta densità» mafiosa: rispetto alle precedenti elezioni, il P.S.I. crebbe a Palermo dal 9,8 al 16,4% mentre il Partito Radicale passò da quasi zero al 2,3%.[205] Claudio Martelli (all'epoca vicesegretario nazionale del P.S.I. e capolista nella circoscrizione della Sicilia occidentale) negò sempre con forza che sia stato stipulato un patto elettorale con i boss.[285]

Il 10 dicembre 1990 si registrò un'ulteriore sconfitta: la Corte d'assise d'appello di Palermo ridusse drasticamente le condanne di primo grado del maxiprocesso, accettando soltanto parte delle dichiarazioni di Buscetta e Contorno[286].

Nel 1991, entrato in rotta di collisione anche con il procuratore capo Pietro Giammanco (che ostacolò alcune sue delicate indagini sulla stagione dei "cadaveri eccellenti"), Falcone accettò l'offerta del ministro della Giustizia Claudio Martelli di andare a lavorare a Roma.[205] Nominato direttore degli affari penali al ministero, Falcone promosse l'istituzione della Direzione Nazionale Antimafia (D.N.A.) e della Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), strutture centralizzate di coordinamento delle indagini antimafia su tutto il territorio nazionale, che furono approvate dal Consiglio dei ministri con il decreto-legge 20 novembre 1991, n. 367.[287] Queste misure furono però accolte da polemiche e critiche da parte del P.D.S. e dell'Associazione nazionale magistrati, che addirittura proclamò uno sciopero in segno di protesta.[280][288]

La candidatura di Falcone alla carica di Procuratore nazionale antimafia fu osteggiata dal C.S.M., tanto che nella primavera del 1992 il ministro Martelli (entrato in aperta polemica con l'organo di autogoverno della magistratura) fu costretto a porre il veto alla nomina del magistrato Agostino Cordova, la cui candidatura era stata posta in opposizione a quella di Falcone[280][289].

La secessione della «stella»

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Lo stesso argomento in dettaglio: Stidda, Strage di Gela e Stragi di Porto Empedocle.

Il 25 settembre 1988 anche nella Sicilia centrale si ebbe un omicidio "eccellente": il giudice Antonino Saetta venne ucciso insieme al figlio Stefano lungo la strada statale Caltanissetta-Agrigento da alcuni mafiosi di Palma di Montechiaro per fare un favore ai Corleonesi di Riina[290]: infatti Saetta avrebbe dovuto presiedere il grado di Appello del Maxiprocesso ed aveva già condannato all'ergastolo i responsabili dell'omicidio del capitano Emanuele Basile[291]. In quella parte dell'isola, oltre l'omicidio del giudice Saetta, si registrarono circa 400 morti ammazzati tra il 1989 e il 1992: gli epicentri della "mattanza" mafiosa erano appunto a Palma di Montechiaro e a Gela, nel nisseno.[292] Le cause di questo massacro sono da ricercarsi a partire dagli anni '60 in poi, quando, a seguito della crisi irreversibile dell'industria estrattiva dello zolfo (che portò all'inevitabile chiusura di tutte le zolfare), l'economia stagnante della Sicilia centrale si iniziò a basare prevalentemente sul settore terziario e sugli appalti pubblici «manovrati a Roma e in loco da notabili politici dei partiti di governo, amici di noti boss della mafia».[59] La costruzione di diverse dighe nella zona (Olivo a Barrafranca, Furore a Naro, Castello a Bivona e Disueri a Gela) divenne oggetto di appetiti da parte di piccoli clan locali rimasti fino ad allora relegati alla criminalità di ambito agro-pastorale (che nell'agrigentino presero il nome di «paracchi» o «famigghiedde»).[85][112][292][293] Dovettero però affrontare la concorrenza delle potenti "famiglie" mafiose, come i Pitruzzella di Favara e i Madonia di Vallelunga Pratameno, che si spostarono in quei luoghi con mezzi ed uomini per sfruttare i nuovi affari, cui si aggiunse l'indotto dell'Anic di Gela[292][293]. Se in un primo momento collaborarono con Cosa nostra, presto i clan dei pastori se ne allontanarono perché non accettavano il diktat dei Corleonesi, i quali intendevano favorire esclusivamente ditte "amiche" in materia di appalti e forniture di calcestruzzi: infatti i "pastori" ammazzarono un potente alleato dei Corleonesi, il capo di Cosa nostra ad Agrigento, Carmelo Colletti, e si unirono agli altri boss della zona che rifiutavano lo strapotere di Riina e dei suoi, i quali, a loro volta, scatenarono la caccia all'uomo.[292] Questa confederazione criminale che si formò fu denominata giornalisticamente «Stidda» (in siciliano «stella» oppure «sfortuna» o «scheggia»), nome, secondo alcuni, derivato da un particolare tatuaggio oppure, secondo altri, dalle origini agricole di molti dei suoi aderenti[292]. Ragazzini di 12-15 anni, rapinatori da strapazzo e tossicodipendenti furono trasformati in killers a buon mercato per regolare i conti con i boss di Cosa nostra. Con questo metodo, gli stiddari riuscirono a compiere le feroci stragi di Porto Empedocle (qui avvennero due distinti massacri: il primo, nel 1986, con tre morti e il secondo, nel 1990, con altri tre uccisi)[294], Riesi (tre morti)[295], Palma di Montechiaro (tre morti)[296], Gela (otto morti e undici feriti in quattro agguati simultanei)[293]